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L’elefante ucciso dall’ananas e dai petardi: ipocrisia o disinformazione?

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Tempo di lettura 6 minuti

La notizia ha fatto il giro del mondo in men che non si dica. In uno stato meridionale dell’India, più precisamente nel Ketara, una femmina di elefante incinta è rimasta uccisa da un ananas imbottito di petardi. Un’immagine indubbiamente straziante, che però ha messo a nudo la mancanza di conoscenza dei più sulle questione ambientali o più prettamente sullo stato attuale delle cose per quanto riguarda ciò che stiamo facendo al mondo animale.

elefante petardi ananas

L’ananas riempito di petardi come metodo di difesa dagli elefanti: un’usanza consolidata

Ed ecco che, nel giro di poche ore, le testate di mezzo mondo riportano la tragica notizia, rilanciata poi da centinaia di milioni di utenti sui vari social. Una cassa di risonanza che, a prima vista, avrebbe potuto giovare alla questione del nostro delirio di onnipotenza verso il mondo animale e naturale. Artisti di fama internazionale hanno iniziato a riprodurre vignette. Persone che molto raramente si interessano di ambiente e dei problemi ad esso legati si sono alzate in piedi per gridare il proprio sdegno e la propria sofferenza, con i soliti slogan di chi, sicuramente mosso da un reale dispiacere momentaneo, il giorno dopo è tornato alla propria vita senza curarsi più della questione ambientale. Almeno fino a quando non ci sarà un’altra notizia con la quale fare una bella figura con i propri contatti Facebook o Instagram.

Ciò che pochissime testate hanno riportato è la dinamica dell’accaduto. Quella di mettere degli esplosivi all’interno di ananas o di altri frutti di cui gli animali selvatici sono ghiotti, è una pratica molto diffusa in India, atta per lo più a scacciare cinghiali o altre specie, ree di rovinare i raccolti. Tant’è che proprio un mese fa era accaduta la stessa cosa, con l’unica differenza che l’elefantessa rimasta uccisa non era incinta e che i giornali non hanno cavalcato la notizia. Una tecnica, quella dell’ananas riempito con petardi, decisamente discutibile, che però viene utilizzata da tantissimi anni e che, verosimilmente, ha già ucciso centinaia se non migliaia di animali, nel silenzio generale e senza che nessuno si indignasse per l’accaduto. Proprio come accade ogni giorno in ogni parte del mondo, dove l’uomo sta poco a poco spazzando via ecosistemi su ecosistemi nell’impunità generale.

Sia chiaro. L’EcoPost si schiera apertamente dalla parte dei diritti degli animali, specialmente per quelli in via d’estinzione come lo sono gli elefanti asiatici e la nostra attività lo dimostra con coerenza. Ciò che si vuole portare all’attenzione del lettore con questo pezzo riguarda il modo, a nostro modo di vedere di dubbia coerenza, con cui alcune persone di ogni età, sesso e provenienza hanno sfruttato la notizia per fare, di fatto, del greenwashing sulla propria immagine, diventando animaliste per un giorno prima di tornare ad ignorare la lunga lista di problemi che vengono più generalmente accorpati in termini più generali come antropocentrismo o riscaldamento globale.

Alcune notizie che dovrebbero fare più scalpore dell’elefante ucciso dall’ananas imbottito di petardi

Restando in tema di morti di animali, proprio mentre si faceva largo l’indignazione generale per quanto accaduto in India, in Etiopia i bracconieri uccidevano cinque elefanti per poter vendere l’avorio delle loro zanne. Qualche giorno prima il Guardian pubblicava un articolo in cui riportava uno studio pubblicato dal giornale del Proceedings of the National Academy of Sciences, in cui si afferma che la sesta estinzione di massa sta accelerando.

Per chi non fosse familiare con quest’ultima locuzione, la sesta estinzione di massa è un processo in corso, causato dall’uomo, per via del quale le popolazioni della maggioranza delle specie di animali selvatici sono in declino verticale. Eccovi qualche numero per contestualizzare il problema. Si stima che, al ritmo attuale di distruzione della natura, entro qualche decina di anni il 75% delle specie attualmente presenti in natura scomparirà, ma alcuni studi sono anche più pessimisti. Per meglio capire la strage di cui si parla, basti dire che al momento conosciamo, all’incirca, due milioni di specie animali e vegetali, a cui si aggiungono altri svariati milioni di specie che vivono nei fondali marini o nelle foreste tropicali con cui ancora non siamo entrati in contatto. Ognuna di queste specie può arrivare a contare, o almeno poteva farlo prima della nostra mania distruttiva, miliardi di esemplari. Dei numeri così alti che diventa anche difficile stabilire quanti altri animali sono morti per mano dell’uomo nel lasso di tempo necessario a condividere una vignetta commovente sulla morte di un animale, che altro non è che una goccia nell’oceano di atrocità a cui sottoponiamo la natura giorno dopo giorno.

La IUCN – International Union for Conservation of Nauture stila ciclicamente una “lista rossa delle specie a rischio”. Il 27% delle specie animali che ha analizzato sono state segnalate come “in pericolo”, per una cifra totale di 31.000. Sì, potete andare a controllare. 31.000 specie esistenti in natura sono a rischio estinzione. Tutti questi animali non muoiono di vecchiaia, ma sono uccisi per mano, diretta o indiretta, dell’uomo senza che lo sdegno generali monopolizzi i nostri social network.

Le cause sono ormai conclamate: deforestazione e perdita di habitat naturale, inquinamento da plastica, pesca intensiva, caccia ed utilizzo di pesticidi su vastissima scala solo per citarne alcune.

I giornali a caccia di click

Se il post di indignazione di una persona qualunque può essere parzialmente giustificabile da una colpevole mancanza di informazioni sulla questione, che tuttavia sono ormai facilmente reperibili in quell’oggetto che teniamo continuamente tra le nostre mani, il modo in cui la notizia è stata immediatamente cavalcata dai media senza che fosse stata sollevata la questione sopra riportata, è quanto meno discutibile. Titoli pieni di parole di cordoglio per l’accaduto hanno iniziato a riempire i siti web di ogni testata, con la notizia che ci perseguitava ovunque guardassimo. L’elefantessa uccisa dall’ananas riempito di petardi ha iniziato ad essere “di moda”, e i giornalisti hanno iniziato a corrergli dietro per dividersi qualche milione di click. Non è difficile immaginarsi la lotta interna tra professionisti della stessa testata, per accaparrarsi il titolo più in voga del giorno, mentre si preparano a far uscire prima del concorrente una notizia che pulisce le coscienze di chi ha urlato “al lupo, al lupo!”, mentre il nostro genocidio della natura continuava imperterrito da un’altra parte del mondo. Chissà quante scimmie cappuccine sono finite sotto a un bulldozer in Amazzonia per difendere la propria casa nello stesso giorno, senza che nessuno disegnerà mai una vignetta per loro. Chissà quanti pesci sono rimasti soffocati dalla plastica, o quanti rinoceronti sono stati uccisi per avere il loro corno, o quanti milioni di animali sono stati macellati negli allevamenti intensivi in quelle ventiquattro ore. Questi sono solo alcuni degli esempi che evidenziano la nostra totale parzialità di giudizio, corrotta da un’informazione superficiale e sempre più lavativa.

Il modo in cui i giornali ignorano deliberatamente la maggior parte delle notizie legate alla crisi climatica e alle sue cause, che sfociano anche nella distruzione più totale del mondo animale, per poi scrivere parole struggenti in difesa di un’elefantessa innocente, denota una profonda incoerenza di fondo. Chi si occupa di comunicazione conoscerà sicuramente il termine agenda setting: si tratta di una pratica che, di fatto, permette a chi detiene il potere di informare, di decidere quale sia l’argomento di cui tutti parleranno quel giorno. Nel nostro paese, e non solo, è ormai evidente come le gaffe televisive di Salvini o i battibecchi interni alla maggioranza per le questioni più svariate, siano considerate più importanti delle 80.000 morti premature causate ogni anno dall’inquinamento atmosferico in Italia, solo per fare un esempio.

La crisi climatica è alle porte e il modo in cui i media la stanno ignorando, potrebbe esserci fatale. La questione CoronaVirus può esserci d’esempio in questo senso. Da un giorno all’altro tutti i giornali hanno iniziato a parlarne, portando alla luce gli enormi rischi legati al dilagare del contagio. E così la maggioranza delle persone si è adeguata di conseguenza, rinunciando a tanti aspetti della propria vita in virtù del bene comune. Se la stessa dialettica fosse utilizzata per un problema altrettanto grave, come quello del cambiamento climatico, non ci vorrebbe molto prima che la società accetti come consolidata la necessità di cambiare radicalmente le proprie abitudini per preservare il pianeta ed il benessere delle future generazioni. Chi acquisterebbe una nuova macchina a benzina o a diesel verrebbe redarguito, al pari di chi oggi entra in un supermercato senza la mascherina. Ed il cambiamento epocale necessario alla risoluzione di questa crisi diventerebbe presto qualcosa di più vicino e tangibile.

La potenza dell’indignazione collettiva, se usata con coerenza

Con quest’articolo non si vuole puntare il dito contro chi ha compianto un animale innocente, ucciso ingiustamente dall’uomo. Ben vengano questi momenti di empatia con il mondo naturale. Ma che siano costanti, e non ad intermittenza. La lotta ambientalista non ha bisogno di chi si lava la coscienza con un post sui social, condiviso di tanto in tanto. Ciò che serve è una presa di posizione collettiva, capace di spingerci fino ai piani alti della nostra società in maniera unita, affinché un coro unico chieda una conversione ecologica nel più breve tempo possibile.

Il celebre “tifoso occasionale”, che salta fuori solo quando c’è da accaparrarsi qualche like, nuoce gravemente a questa battaglia che va combattuta con urgenza e con consapevolezza. Per cui informiamoci in maniera approfondita e coerente, scendiamo in piazza a manifestare, chiediamo a pieni polmoni un’inversione di rotta, agiamo in maniera coscienziosa e rispettiamo il mondo che ci circonda. Non solo tre, quattro volte all’anno, ma tutti i giorni. Di fronte a questi numeri di distruzione più totale, indignarsi per la morte di un elefante mentre il mondo naturale è al collasso denota una grande confusione generale sullo stato delle cose. La morte di milioni, miliardi di animali è sulle nostre coscienze. Su quelle di tutti coloro che guardano con indifferenza all’avanzare della deforestazione, della pesca intensiva, dell’utilizzo di pesticidi su miliardi di ettari di campi e delle trivellazioni continue. Magari foraggiando con i propri consumi i responsabili. Stimoliamo il cambiamento con le nostre azioni, le nostre parole e le nostre decisioni, ma facciamolo con coerenza e costanza. Solo così ci potremo salvarci dalla sesta estinzione di massa.

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di Luigi Cazzola
Giu 11, 2020
Nato nel 1991 a Fano, laureato in Lingue e Comunicazione. Marketer di professione e diverse esperienze all’estero alle spalle. Da ormai qualche anno ambientalista convinto, a Settembre 2018 arriva la svolta che stava aspettando. Viene selezionato per il “Corso di Giornalismo Ambientale Laura Conti”, dove può finalmente approfondire tematiche relative tanto al giornalismo quanto all’ambiente. Fermamente convinto che la lotta al cambiamento climatico sia la più importante battaglia della sua generazione, decide di mettere le competenze acquisite al servizio di tutti per accrescere la consapevolezza legata a questo tema e fornire consigli pratici per orientare le scelte dei singoli verso un approccio più green grazie ad un consumo più critico e consapevole. Per L’Ecopost si occupa di redazione di contenuti, sviluppo Front-End e comunicazione sui Social Media.

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