Il polmone verde del pianeta sta letteralmente andando in fumo. 72.000 incendi registrati nel 2019 in tutto il Brasile, di cui più della metà scatenatisi in Amazzonia. L’84% in più di quelli registrati nell’anno precedente. Questi i dati registrati dal National Institute for Space Research.
I cieli di Rio de Janeiro che diventano neri alle 4 di pomeriggio a causa di una nube di fumo proveniente da 2.700 chilometri di distanza. Una coltre nera facilmente visibile dallo spazio. Un presidente che accusa le ONG ambientaliste di aver appiccato gli incendi. E 20.000 ettari di Amazzonia che vengono rasi al suolo dalle fiamme. Una catastrofe ambientale che si aggiunge ai già più che preoccupanti episodi che in questa stagione estiva si sono verificati in Alaska, Groenlandia, Siberia ed Isole Canarie. Il mondo è letteralmente in fiamme. E ancora si è lì a discutere se il cambiamento climatico debba essere, o meno, la priorità assoluta per i governi di tutto il mondo.
Un’origine dolosa
Il primo dato da sottolineare quando si parla di incendi è che più del 99% di essi ha origine dolosa. Ed anche in questo caso è più che probabile che questi episodi non appartengano al restante 1%. Già vi avevamo parlato della volontà del presidente del Brasile Jair Bolsonaro di utilizzare la foresta Amazzonica come una fonte inesauribile di risorse per arricchire il paese, senza curarsi del fatto che proprio quel crogiolo di biodiversità e bellezza sia una delle armi più importanti che l’umanità ha per contrastare il cambiamento climatico.
I tratti di Amazzonia che oggi stanno bruciando da più di due settimane, infatti, diventeranno terreno che verrà utilizzato per monocolture e allevamenti intensivi. D’altronde, incendiare una determinata area verde per poi essere in grado di poter convertire la zona ad uso industriale è una pratica già vista e rivista, spesso, purtroppo, anche nel Sud del nostro paese. L’irresponsabilità e la corruzione sono entrambe sfaccettature facilmente distinguibili nell’operato del Presidente brasiliano che ha deciso di voler vendere il benessere delle future generazioni per favorire le lobby dell’agribusiness.
Le accuse di Bolsonaro
Bolsonaro è ora sotto i riflettori, nonostante la notizia stia comunque avendo una copertura mediatica decisamente minore rispetto a quanto meriti. Nel momento in cui si è ritrovato spalle al muro, come ogni esponente di un volere populista che si rispetti, ha iniziato a puntare il dito e gettare fango contro altri. Tra l’altro, in maniera poco credibile.
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Una delle prime reazioni che ha avuto è stata quella di licenziare Ricardo Galvao, capo dell’INPE ovvero l’Istituto che ha registrato e poi pubblicato i dati relativi agli incendi che hanno colpito l’Amazzonia nel 2019. Successivamente ha deciso di puntare il dito contro diverse associazioni ambientaliste, ree, a suo dire e senza prove, di aver appiccato gli incendi. Galvao ha così commentato queste prese di posizione: “Quello che sta accadendo è che questo governo ha inviato un chiaro messaggio, non ci saranno più punizioni come prima…il controllo della deforestazione non avverrà più come in passato”.
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La nota triste di queste dichiarazioni è che, oltre ad essere decisamente veritiere, non sono altro che la conferma di quanto già ampiamente prevedibile sin dal giorno in cui Bolsonaro è stato eletto Presidente. L’allarme e la preoccupazione che scattano oggi, dunque, è più che tardiva. Così come lo saranno eventuali misure di sicurezza adottate dal diritto internazionale. E non è detta che queste arrivino, quanto meno in tempi brevi.
Amazzonia vs. Notre Dame: il paragone sui social
Come al solito i social non hanno lasciato passare indenne la notizia. Qualche mese fa, infatti, un incendio ha colpito Notre-Dame de Paris. Nel giro di poche ore le immagini della cattedrale hanno monopolizzato la copertura mediatica e i miliardari di tutto il mondo sono riusciti a raccogliere, in poche ore, 218 milioni di euro da donare per la sua ricostruzione. Mentre oggi “dopo 16 giorni che l’Amazzonia, il polmone verde del mondo, sta andando a fuoco nessuno fa niente. Né i media, né i governi. Né tanto meno i miliardari”.
Questo uno dei commenti più condivisi sui social che riassume in pieno l’iniquità con cui le questioni ambientali vengono trattate rispetto alle altre. Una parte del web tuttavia, nonostante il secondo piano dato dai media alla vicenda, non ha esitato a mostrare il suo supporto sulle ali dell’hashtag #PrayforAmazonia. Fortissimo è stato il grido di dolore ed indignazione dei FridaysforFuture di tutto il mondo.
Salvare l’Amazzonia per salvare il pianeta
Le nostre possibilità di sconfiggere il cambiamento climatico vanno di pari passo con la conservazione, e l’ampliamento, degli spazi verdi di tutto il pianeta. Un discorso che va sicuramente accentuato per quanto riguarda l’Amazzonia, la foresta pluviale più grande del mondo. Casa di uno degli ecosistemi con la più grande biodiversità e più grande magazzino di CO2 del pianeta su terraferma. Il fatto che oggi le sue sorti siano nelle mani di Bolsonaro non può che preoccupare. I danni che la foresta può subire nell’arco di un’intera legislatura potrebbero essere irreversibili. Non solo per la foresta in sé per sé ma per il mondo intero.
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L’IPCC ha affermato che abbiamo 12 anni per salvare il pianeta. Beh, se la direzione è questa potrebbero essere molti di meno. Di fronte a situazioni come questa non resta che aggrapparsi ad un’unica speranza. Per ogni Bolsonaro che brucia una foresta, ci sarà una Greta che lotterà per preservarla. Scegliere da che parte schierarsi non sembra particolarmente difficile.