È passato un anno dalla strage di alberi più imponente avvenuta nel Nord Italia. Fra il 29 e il 30 ottobre 2018, la tempesta Vaia, con venti fino a 280 chilometri orari, ha raso al suolo milioni di alberi che da secoli o decenni rivestivano le vette dei nostri monti in Trentino, Friuli e Veneto. Dico “nostri” perché ognuno di noi almeno una volta nella vita ha trascorso qualche giorno immerso nella bellezza delle Alpi, per una vacanza in famiglia o un weekend di sci con gli amici. Ed è per questo che le immagini con interi versanti di alberi abbattuti hanno fatto il giro della penisola, creando un moto di commozione e sbalordimento collettivo. Oggi, ad un anno da quella strage, viene da chiedersi che fine abbiamo fatto tutti quegli alberi: Sono ancora lì? Oppure sono stati raccolti? E a beneficio di chi? Ma soprattutto, quanto tempo ci vorrà perché la situazione torni come prima?
14 milioni di alberi abbattuti. Il ruolo del cambiamento climatico
8 milioni di metri cubi di alberi. Questa la cifra indicativa di alberi abbattuti dopo il passaggio della tempesta Vaia. Per quanto i negazionisti proveranno ad obiettare, è difficile non riconoscere anche in questo disastro naturale il contributo del cambiamento climatico. Le tempeste violente si sono sempre verificate, ma in questo caso si sta parlando di una quantità di legname pari a sette o otto anni di taglio normale annuo. Una quantità che porta con sé allo stesso tempo un’inaspettata forma di mercato nel breve termine e conseguenze molto negative in una visione ad ampio raggio.
Il mancato governo e il mercato di legname
Infatti, se si guarda all’immediato, la strage di alberi dello scorso ottobre ha spalancato la porta ai mercanti di legname. Ottimo legno a prezzi stracciati. È così che si sono affacciati sul nostro mercato acquirenti stranieri, perlopiù austriaci, sloveni, ma anche cinesi. Come biasimarli. La colpa non è di certo loro, che fanno il loro mestiere. Né è delle autorità e delle imprese locali, che preferiscono vendere al ribasso piuttosto che lasciare a terra quantità enormi di ottimo legno. Resta quindi da chiedersi cosa abbia fatto il governo italiano: “è mancata una regia complessiva”, ha affermato Emanuele Orsini, presidente di FederLegno Arredo, in un’intervista al Sole 24 Ore.
E continua: «Sarebbe servita una task force centrale a supporto delle aziende nella rimozione degli alberi e nello stoccaggio in aree collettive, attraverso un consorzio nazionale sostenuto dalle banche e con la garanzia del governo». La strategia del governo è stata invece quella di stanziare fondi di emergenza e derogare alle singole Regioni o Province Autonome il compito di gestire la situazione. Per il resto è stata creata una “filiera solidale” in mano a Pefc, l’ente certificatore delle foreste italiane; l’invito è rivolto alle aziende di legname del nostro paese, che attraverso il logo Pefc possono riconoscere il legno proveniente dalle zone delle Dolomiti e preferirlo all’importazione di legno straniero.
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Una corsa contro il tempo per “salvare” gli alberi
Perché quel legno non rimarrà ottimo per sempre. Si parla di un lasso di tempo che va dai sei mesi ai due anni per poter usufruire del legno degli alberi abbattuti. Dopodiché il legname perde di valore o diventa inutilizzabile a causa dell’arrivo di parassiti che proliferano nel legno morto. Ed è per questo motivo che la strage di alberi rappresenta un pericolo anche nel lungo termine: il legno abbandonato intaccato da parassiti potrebbe contaminare tutte le piante adiacenti rimaste ancora in piedi. Un altro rischio per la zona è costituito dallo sradicamento delle enormi radici su cui poggiavano quegli alberi. In caso di forti nevicate, le radici estirpate o mal ancorate potrebbero causare colate di fango o valanghe, così mettendo in pericolo le valli sottostanti.
In una recente inchiesta de L’Espresso, si stima che il 50% del legname sia stato rimosso e che il mercato sia ora prevalentemente gestito da imprese dell’Est Europa. Difficile constatare se quella cifra sia reale o un po’ troppo ottimistica. Un servizio del Tg2 parla infatti di un misero 20%. Nel mio recente viaggio in Trentino, precisamente nel parco naturale Paneveggio Pale di San Martino, ho potuto constatare che pochissimi alberi sono stati rimossi, a fronte di interi versanti ancora ricoperti da migliaia di tronchi. Uno scenario spettrale. Si percorrono sentieri totalmente al sole dove fino all’anno scorso c’era solo ombra. Gli abitanti locali raccontano che non hanno mai vissuto nulla di paragonabile a quella notte, con il vento forte e l’acqua che si abbatteva alle finestre. Sono rimasti isolati per tre giorni a causa delle strade interrotte; anche loro fanno riferimento all’arrivo dei cinesi per accaparrarsi il legno ad un prezzo stracciato.
Nuovi alberi crescono
È stato stimato che ci vorranno cento anni, come minimo, per far tornare la situazione come prima. Molti si stanno prodigando per riparare ciò che la strage di alberi ha spazzato via in una sola notte. Aveva fatto notizia, ad esempio, il colossale sforzo della Magnifica Comunità di Fiemme: 400mila baby alberi coltivati nei vivai per diventare le future cime delle Dolomiti. Un lavoro di estrema cura, che necessita di un’osservazione costante per un periodo di 4 anni prima della piantumazione nelle aree previste. Come ci testimonia Ilario Cavada, tecnico forestale della Magnifica Comunità di Fiemme, “quando sono piccoli, anche un filo d’erba rappresenta una minaccia”.
Una storia di premura che ci ricorda il famoso racconto francese intitolato L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Narra di un pastore che con la sua sola costanza decise di riforestare un’intera zona delle Alpi francesi. Così recita il breve racconto allegorico: “Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione”.
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Una strage di alberi, la crisi climatica è qui e ora
Ritengo che questa ultima frase debba rimanere impressa nelle nostre menti. È opportuno sottolineare una volta ancora che la strage di alberi delle Dolomiti non può essere considerato un fenomeno naturale. Fa parte invece delle ormai quotidiane testimonianze che la crisi climatica esiste. Una crisi climatica che ognuno di noi ha contribuito a creare. Gli scienziati ammettono che è complicato trovare una diretta correlazione fra il cambiamento climatico e ogni singolo evento meteorologico estremo. D’altra parte però, in un convegno organizzato a Dicembre 2018 per analizzare cause e conseguenze della tempesta Vaia, tutti hanno convenuto che il primo e principale fattore a scatenarla sia stato il cambiamento climatico, che porta ad eventi sempre più frequenti ed estremi nelle Alpi.
In definitiva, ci teniamo a far presente che diviene sempre più urgente riconoscere l’emergenza climatica a livello nazionale, con un piano verde e di transizione energetica coraggioso e mirato. La piantumazione di alberi, in questo caso, deve essere una priorità assoluta. Ce l’hanno ricordato Greta Thunberg e il giornalista George Monbiot alla vigilia dell’ultimo Climate Strike: “Esiste una macchina magica che aspira il carbonio dall’aria, costa pochissimo e si costruisce da sola. Si chiama albero”. Come ci ricorda il racconto sopracitato, l’essere umano è stato bravissimo a distruggere, ma potrebbe essere altrettanto efficace per riparare, ripristinare, rigenerare. Cominciamo dagli alberi.
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