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“Seaspiracy” e l’insostenibilità della pesca

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Tempo di lettura 8 minuti

A distanza di sette anni dal discusso documentario “Cowspiracy”, Kip Andersen, nei panni di produttore esecutivo, affiancato dal regista Ali Tabrizi, torna a denunciare una realtà attuale quanto drammatica; quella dell’impatto antropico sugli oceani. Una delle tante che vengono nascoste ai nostri occhi ogni giorno. Tabrizi mette in gioco se stesso per capire meglio cosa si celi dietro la pesca industriale. Corruzione, giochi di potere, schiavismo e distruzione ambientale sono solo alcuni dei temi che vengono affrontati in questo meraviglioso documentario; disponibile su Netflix a partire dal 24 marzo.

Prima tappa Taiji, Giappone

Questo documentario ha lo scopo di denunciare le ingiustizie che ogni giorno, silenziosamente, massacrano gli oceani del Pianeta ed i suoi abitanti. Ali Tabrizi ha deciso di iniziare questo viaggio dando voce ad una terribile pratica che tutt’oggi lascia sgomenta gran parte del Mondo. La mattanza dei delfini a Taiji, che ha luogo in una baia nel sud del Giappone.

Il governo giapponese si impegna molto per far si che la gente non ne sappia niente. Chi si oppone è messo in prigione e chi cerca di documentare viene seguito h24. E’ essenziale nel 2021 informare su ciò che accade a Taiji. Se non risolviamo questo terribile massacro come possiamo pensare di salvare e tutelare gli oceani? La baia nella quale avviene la mattanza dei delfini è grossa quanto un campo da calcio. E’ impensabile che non si possa cambiare le cose.

Ric O’Barry fondatore di “Dolphin Project“.

Purtroppo lo scenario è lo stesso per una settimana o più; circa 13 barche escono molto presto dal porto per andare a speronare pod (gruppi familiari) di delfini disturbandoli con forti rumori e spingendoli verso la baia. Una volta lì alcuni vengono catturati per poi essere venduti al mercato dei parchi acquatici, ma la maggiorparte invece viene annegata e arpionata. Ma per quale motivo?

Un pod di globicefali si radunano insieme, alla ricerca di una via di fuga. 
Sarebbero stati tutti massacri diverse ore dopo, ad eccezione di uno.
Crediti: Dolphin Project

La caccia ai delfini di Taiji continua ad essere sostenuta, sottoscritta e finanziata dall’industria dei parchi acquatici. Un delfino vivo vale parecchio. Perciò l’obiettivo è catturare giovani esemplari di delfini e balene e rivenderli a tali parchi. La cattività in vasche di cemento li priva di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta e spesso si lasciano morire. Tutto ciò che non vogliono fare sono costretti a farlo.

Lori Marino, fondatrice di “The whale sanctuary project

La domanda più ovvia a questo punto che si pone Ali è: quanto può valere un delfino morto? Da alcune ricerche è risultato che dal 2000 al 2015, per ogni delfino catturato e rivenduto ai parchi ne sono stati eliminati 12. Perchè ucciderli se la mattanza dei delfini è alimentata dall’industria della cattività? La risposta può essere formulata solo da coloro che dedicano la propria vita a contrastare tali ingiustizie, come Sea Shepherd:

La risposta è: disinfestazione. Per i pescatori i delfini rappresentano la concorrenza, poichè mangiano grandi quantitativi di pesce. Perciò, sbarazzandosene, avranno più pescato a loro disposizione. In altre parole, è una reazione alla pesca eccessiva che ha luogo a Taiji.

Tamara Arenovich, Sea Shepherd crew

Non solo delfini

A pochi km da Taiji vi è il porto di Kii-Katsuura, il quale cela dietro ai propri cancelli un altro dramma. Questa volta ad essere coinvolto è un pesce: il tonno. Rendere i delfini il capro espiatorio per la pesca eccessiva permette alle flotte pescherecce nipponiche di perseverare nell’industria multimiliardaria del tonno e declinare qualsiasi responsabilità ecologica.

Le cifre che circolano riguardo al tonno ed in particolare alla varietà “rossa” sono drammatiche. I prezzi che raggiunge la sua carne sono i più alti in assoluto, proprio per la sua sempre maggiore scarsità negli oceani di tutto il globo; un solo esemplare può essere venduto anche per 3 mln di dollari ed il settore ne vale 42 all’anno.

Mercato del tonno di Tokio

Il settore è a rischio di sovra sfruttamento e, ad oggi, rimane solo il 3% della specie. Purtroppo il tonno non è l’unica specie di valore pescata. Un altro pesce è al centro del commercio ittico nipponico: lo squalo. Una volta a Tokio, Ali si è trovato davanti ad una scena agghiacciante: distese di corpi di squali ai quali venivano recise le pinne.

Lo shark finning (o spinnamento degli squali) è un’altra industria multimiliardaria, spesso legata ad attività criminali e associazioni mafiose. Gli squali di tutto il mondo vengono uccisi per le pinne, le quali vengono vendute in Asia, specialmente in Cina per la tipica zuppa.

Seconda tappa Hong Kong, Cina

Il mistero che avvolge la caccia agli squali incuriosisce Ali, tanto da partire alla volta di Hong Kong, nota come “la capitale delle pinne di squalo”. Ciò che vi trova è sconvolgente: pinne ovunque.

La presenza degli squali negli oceani non deve spaventarci, mentre la loro assenza si. Questi ultimi mantengono in salute gli oceani, oltre che le risorse ittiche sane e gli ecosistemi vivi. Se portassimo gli squali all’estinzione l’oceano diventerebbe una palude.

Leggi anche il nostro articolo: “Overfishing: UE accusata di ipocrisia e neocolonialismo”

Proprio come il tonno rosso, il numero degli squali sta crollando. Lo squalo volpe, toro e martello si sono ridotte dell’80% fino al 99% della popolazione negli ultimi decenni. Ogni anno almeno 50 mln di squali vengono catturati a causa del “bycatch” assieme al pescato destinato alle nostre tavole.

Ali Tabrizi ad Hong Kong
Crediti:  Lucy Tabrizi

Secondo alcune stime, il 40% del pescato viene rigettato in mare come “cattura accessoria” in gran parte già morto prima ancora di rientrare in acqua. Dunque impedire il commercio di pinne destinate alle zuppe è solo un granello di sabbia rispetto alla vera entità del problema; la pesca è dannosa quanto, se non più, dello shark finning (limitato all’Asia), essendo praticata in tutto il Pianeta.

Le catture accessorie sono le vittime invisibili della pesca industriale. Vengono definite “accidentali”, ma in realtà è un elemento perfettamente calcolato nell’economia della pesca. Esistono oltre 100 regolamenti di pesca per ridurre tali catture; ma con più di 4 mln e mezzo di pescherecci commerciali in mare aperto i governi hanno rinunciato a farli rispettare. A Taiji viene ucciso 1/10 dei delfini che rimangono vittime nelle reti francesi, ed il governo bada bene di non divulgare tali informazioni. Queste cifre devono far riflettere.

Il marchio “salva delfino”

La più grande minaccia per balene e delfini è la pesca commerciale; ogni anno più di 300.000 esemplari rimangono vittime di tale pratica. Tutti noi, quando dobbiamo acquistare del pesce in scatola (come il tonno) preferiamo mirare a marchi che presentano la qualifica “salva delfino”, pensando che siano sostenibili. Purtroppo, invece, molto spesso le etichette coprono ciò che realmente accade in mare.

La qualifica “salva delfino” su di una scatoletta di tonno.

Tale qualifica purtroppo non è garantita. Un controsenso? Proprio così. Lo afferma la stessa organizzazione che si trova dietro il marchio, l’ “Earth Island Institute”:

Se vuoi usare tale logo non puoi uccidere nemmeno un delfino, altrimenti sei fuori. Sfortunatamente non possiamo garantire che ogni lattina sia “dolphin safe”; una volta che i pescherecci sono in mezzo all’oceano non è possibile controllarli. Si, a volte mandiamo degli osservatori a bordo ma spesso vengono corrotti, e così ci si deve fidare dalla parola del capitano.

Mark J.Palmer dell’ “Earth Island Institute”

Una vera e propria frode. Questo marchio, riconosciuto a livello internazionale, è una montatura, dal momento che non garantisce assolutamente nulla. Inoltre, il 46% della plastica presente nel Great Pacific Garbage è costituita da reti e attrezzatura da pesca. Ma di questa correlazione (Pesca= Inquinamento) se ne parla pochissimo. Perchè le campagne contro la plastica non parlano della pesca come primo colpevole?

Visitando i siti delle principali organizzazioni che trattano l’inquinamento da plastiche si possono notare centinaia di incoraggiamenti ad abbandonare l’utilizzo di cannucce, bustine del thè e gomme da masticare; ma nessun cenno alla pesca ed ai suoi rifiuti. Si è scoperto che dietro una delle realtà che più incarna la denuncia all’utilizzo della plastica, “Plastic Pollution Coalition”, vi è l’ “Earth Island Institute”. La stessa organizzazione che gestisce il marchio “Dolphin Safe”. Ecco spiegato il silenzio sulla correlazione pesca-plastica. La corruzione parte dalle stesse realtà che dovrebbero tutelare il mare. Terribile.

La pesca ed il cambiamento climatico

Ogni singola specie è interconnessa e necessaria nel mantenere in equilibrio l’oceano e l’atmosfera del nostro Pianeta. Sembrerà incredibile, ma la forza generata dagli animali che si muovono lungo la colonna d’acqua nell’oceano, in termini di rimescolamento, è alla pari di tutti i venti, maree, onde e correnti messe assieme. Tale rimescolamento è uno dei modi in cui gli oceani assorbono il calore dall’atmosfera. Mentre nuotano, gli animali spingono in profondità le acque superficiali più calde mescolandole con quelle più fredde sottostanti.

Tutto ciò è oggetto di diversi studi, i quali affermano che la decimazione della fauna marina potrebbe interferire con tale processo di assorbimento, contribuendo così all’innalzamento delle temperature. Gli oceani ed i suoi abitanti hanno un ruolo molto più importante di quanto ci si aspettasse. La vita negli oceani è cruciale nel tenere a bada il carbonio ed impedire che venga rilasciato nell’atmosfera.

Le piante marine, ad esempio, svolgono un ruolo fondamentale: accumulano fino a 20 volte più carbonio per ettaro delle foreste emerse. In effetti, il 93% della CO2 mondiale si trova nell’oceano grazie alla vegetazione marina. Perdere solo l’1% di questi ecosistemi equivale ad immettere nell’atmosfera le emissioni di 97 mln di automobili. Continuando l’estrazione dei pesci stiamo disboscando gli oceani; infatti, nel processo di pesca vengono distrutti interi ecosistemi ed habitat. La prima a contribuire è la pesca a strascico, che lascia dietro di se distruzione ed depauperamento.

MSC, la certificazione dell’incoerenza

Ali ha provato più volte a contattare la Marine Stewardship Council (MSC), un’organizzazione internazionale non-profit che si occupa del problema della pesca non sostenibile, con lo scopo di garantire l’approvvigionamento di prodotti ittici anche per il futuro; ma senza successo. Questo è quanto vi è scritto sul loro sito:

“La nostra missione è affrontare il problema della pesca non sostenibile e salvaguardare le risorse ittiche per il futuro. Con l’aiuto dei nostri partner, e di consumatori attenti alla sostenibilità, vogliamo innescare un circolo virtuoso verso un mondo sempre più sostenibile. Il programma di certificazione e di etichettatura MSC permette a tutti di svolgere un ruolo nel garantire un futuro sano per i nostri oceani.”

Il logo del Marine Stewardship Council (MSC)

La più grande organizzazione di pesca sostenibile al Mondo si rifiuta di rispondere alle domande del regista. Perchè? Conflitto di interessi. Dopo alcune ricerche, Ali si rende conto che uno dei fondatori di MSC era la multinazionale Unilever, uno dei maggiori distributori di pesce. Inoltre, l’80% dei 30 mln di reddito annuale viene dalla licenza del marchio sui prodotti ittici. In altre parole, più etichette blu vengono concesse più aumentano i guadagni.

Esiste una forma di pesca sostenibile?

Questa è la domanda che si pone il regista alla fine del documentario. E la risposta è NO. Non esiste un prelievo di animali selvatici su larga scala che possa corrispondere al termine “sostenibile”. Non è possibile far rispettare le leggi sulla pesca, ritenuta sostenibile, a tutte le barche in mare aperto. Si è assistito in più parti del mondo ad assassinii di osservatori sui pescherecci, per tenere nascosta l’illegalità di alcune azioni.

Negli Stati Uniti, ad esempio, un pesce di importazione su tre è pescato e venduto illegalmente. Spesso viene sottratto ai Paesi più poveri, dove è oggetto di guerre. Si pensi al fenomeno della pirateria in Somalia; tutto si è originato dalla pesca illegale. Coloro che erano umili pescatori, trovatisi difronte alle flotte pescherecce del Mondo esterno (illegali) e derubati delle proprie risorse ittiche, son stati instradati alla pirateria per potersi sostentare.

Spesso si associano gli allevamenti ittici alla sostenibilità. Niente di più sbagliato. Bisogna tener di conto delle malattie, dell’inquinamento, del cibo che viene somministrato ai pesci ed altri fattori che spesso sfuggono alle regolamentazioni internazionali. L’industria sostiene che per produrre 1 kg di salmone da allevamento servano solo 1,2 kg di mangime. Facendo un focus su quest’ultimo però, c’è da rabbrividire: è composto da farine ed olio di pesce, la cui produzione richiede un gran quantitativo di esemplari. Ad oggi, circa il 50% del totale del pesce proviene da allevamenti intensivi da tutto il Mondo.

Ciò che ognuno di noi può fare per proteggere gli oceani ed i suoi abitanti è non mangiare pesce o, quanto meno, ridurne il consumo. Aumentando la protezione e riducendo drasticamente la pesca, ristabilendo l’equilibrio e la salute degli ecosistemi, ci sono buone probabilità di superare i problemi. Gli ecosistemi marini hanno la capacità di riprendersi in fretta, se gli viene data la possibilità. Le prospettive di recupero sono realizzabili, ma solo quando verranno istituite enormi aree marine protette (no-take zone) ed i governi inizieranno a far sentire davvero la propria voce. Fino a quel momento, la cosa più etica da fare è: smettere di mangiare pesce.

Ciò che è certo è che consumare pesce ai ritmi odierni non è in alcun modo sostenibile. Alcune stime ci dicono che, se continueremo così, entro il 2048 gli oceani potrebbero essere completamente svuotati. Alla luce di quanto sopra e, soprattutto, dopo la visione di questo documentario, il nostro consiglio, per chi non sia disposto ad eliminare il pesce dalla propria dieta, è quello di ridurne l’assunzione quanto più possibili e di evitare le specie appartenenti agli stock più sfruttati come, ad esempio, il tonno. In ogni caso, prima di prendere una decisione, L’EcoPost consiglia vivamente la presa visione del documentario in modo che ognuno possa scegliere con consapevolezza il da farsi.

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di Beatrice Martini
Mar 25, 2021
Nata nel 1993 a Roma, laureanda in Scienze Biologiche. Grazie alla sua famiglia fin da piccola si appassiona alla natura e alla conservazione di quest’ultima decidendo di farne una missione nella vita. Questo la porta in giovane età ad affacciarsi al mondo della subacquea e della fotografia naturalistica, partecipando a corsi (Scuola di fotografia Emozioni Fotografiche) e workshop in tutta Italia, come il “Marine Wildlife 2018” con Canon presso Tethys Research Institute. Durante il liceo vince due premi letterari che la portano ad appassionarsi al giornalismo, specialmente quello ambientale. Affascinata dai lavori delle sue mentori, Ami Vitale e Cristina Mittermeier, punta a diventare anche lei una foto/videoreporter per la conservazione dell’ambiente. Crede fortemente nel potere della parola e delle immagini attraverso le quali spera, un giorno, di poter dare un contributo per la salvaguardia del Pianeta. Nel 2020, grazie a L’Ecopost, le viene data l’occasione di poter affacciarsi al giornalismo e alla denuncia ambientale.

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