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Perché il cambiamento climatico colpisce di più le donne?

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Siamo in un’ epoca nella quale uno degli uomini più potenti dell’industria del cinema è stato incarcerato per molestie contro le donne avvenute molte anni prima, grazie al movimento MeToo. Ma siamo anche in un’epoca in cui il salario medio maschile resta il 21% maggiore rispetto rispetto a quello femminile. Nel nuovo millennio, una ragazzina di 17 anni è diventata la rappresentante di una nuova rivoluzione mondiale. Nello stesso tempo, però, un’azienda simbolo dell’economia globale si è permessa di denigrarla impunemente con una vignetta intimante lo stupro. Ed è proprio per questi molti passi indietro, a fronte dei pochi avanti, che i cambiamenti climatici rappresentano sia una causa sia una conseguenza delle condizioni di vita innegabilmente peggiori delle donne rispetto a quelle degli uomini.

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Le donne e le catastrofi naturali

Come dice il titolo stesso del rapporto UNEP “Le donne nella prima linea del cambiamento climatico”, le persone di sesso femminile corrono maggiori rischi nell’affrontare i cambiamenti climatici rispetto agli uomini. Questo è stato riscontrato soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove le donne hanno ben pochi diritti. Ma non solo.

Secondo il rapporto Oxfam sullo Tsunami del 2004, si legge che in Asia meridionale alle donne e alle ragazze viene impedito di imparare a nuotare per rispetto delle norme sociali che regolano i codici di abbigliamento. Questo ha ridotto notevolmente le loro possibilità di sopravvivenza in caso di inondazioni. Infatti, sempre secondo il rapporto, in Sri Lanka, India e Indonesia le donne sopravvissute allo Tsunami del 2004 sono state soltanto un terzo degli uomini.

L’economista Miriama Williams ha affermato poi come le donne, avendo solitamente un ruolo di maggiore responsabilità sui bambini e gli anziani, rischiano di rimanere indietro per badare, appunto, a loro. Per le donne incinte, poi, aumentano i disagi a causa della loro scarsa mobilità e della scivolosità dei terreni. Vi è di conseguenza una maggiore possibilità che le donne rimangano ferite o uccise, non tanto per una loro “debolezza” intrinseca, spesso vista erroneamente come causa principale della sofferenza femminile.

La vera causa è invece da ricercare a monte, ovvero in una mancanza di potere decisionale che può impedire loro di uscire di casa nonostante, per esempio, il sorgere livelli d’acqua, in attesa di un’autorità maschile che conceda loro il permesso. Oltre che la mancanza di una dovuta educazione nell’affrontare disagi di questo tipo.

Dopo la catastrofe, la catastrofe non finisce

Il pericolo per le donne non termina però con la fine di un disastro ambientale. Secondo l’ONU, l’80% degli sfollati delle catastrofi naturali sono donne. Anche qui vi sono varie cause. Innanzi tutto, le donne che vivono in una condizione sociale ed economica precaria hanno più difficoltà a risollevarsi dopo una catastrofe. Molto banalmente, se si ritrovano sole, non hanno soldi per ricostruire una casa o comprare un nuovo terreno. Spesso, quindi, sono costrette a prostituirsi, oppure ad affrettare matrimoni non voluti.

Per trovare degli esempi non serve allontanarsi dalla società occidentale. Dopo l’uragano Katrina che ha colpito l’America nel 2005, le donne afro-americane della Louisiana sono state le più colpite. Jacquelyn Litt, professore di studi sulle donne e sul genere alla Rutgers University, ha dichiarato alla BBC che “più della metà delle famiglie povere della città erano formate da madri single. Queste facevano affidamento a comunità interdipendenti per le risorse quotidiane. I dislocamenti provocati dall’uragano hanno eroso quelle reti, mettendo a grande rischio le donne e i loro bambini.

Ruolo primario, considerazione secondaria

Meno acqua, più violenze

Il paradosso per il quale le donne sono emarginate e sottovalutate nonostante ricoprano un ruolo di indiscussa importanza nella gestione delle risorse familiari, diventa un grave problema nei Paesi in via di sviluppo.

Nell’Africa rurale sono solitamente le donne a procurare acqua e legname. Il lago Ciad, che forniva questi beni primari ad almeno quattro nazioni, si è ormai quasi del tutto prosciugato. Le donne sono quindi costrette a cercare l’acqua in luoghi molto lontani dai villaggi. Questo le espone al rischio di violenze e uccisioni molto più frequentemente del solito. Per non parlare del problema delle latrine. La loro mancanza o precarietà per mancanza di acqua o perché distrutte continuamente da disastri naturali, porta le donne a preferire luoghi aperti, appartati e, quindi, lontano dalle abitazioni, il che preclude la loro sicurezza.

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Inquinamento di aria e acqua

La mancanza di latrine causano anche una contaminazione dell’aria e delle falde acquifere notevole. Le donne, che rimangono più spesso tra le mura domestiche e all’interno dei villaggi, sono molto più esposte a questo tipo di inquinamento. Ma non solo. Come si legge sul report “Gender, climate change and health” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, in Bangladesh, nella regione orientale dell’India, la contaminazione da arsenico delle falde acquifere è molto alta. Le inondazioni intensificano il tasso di esposizione a questa sostanza da parte delle persone svantaggiate dal punto di vista socio economico, le quali sono spesso rappresentate dalle donne.

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Sempre nello stesso documento è riportato il problema delle acque stagnanti in conseguenza delle inondazioni. Il ristagno idrico incide gravemente sulla salute delle donne che sono costrette a bere l’acqua antigienica dei villaggi colpiti. Gli operatori sanitari locali hanno riferito che stanno aumentando anche i problemi ginecologici delle donne a causa di un uso non igienico dell’acqua.

Gli stessi problemi, sia chiaro, possono colpire anche gli uomini. Anche qui può giocare un ruolo funesto la retrograda mentalità per cui essi si sentono in dovere di dimostrare un eroismo e una mascolinità superiore rispetto alla controparte femminile. Bisogna dire, però, che gli uomini, però, si trovano spesso lontano dal nucleo familiare per cause lavorative e riescono quindi ad evitare questi disagi.

Piccole proprietarie terriere

Katharine Wilkinson è una delle autrici di Project Drawndown, un progetto che è stato definito “la risorsa leader mondiale per le soluzioni climatiche”. Durante un TED Talk, Katherine ha sollevato la questione delle donne quali principali coltivatrici del mondo. Esse, infatti, producono dal 60 all’80% della totalità del cibo prodotto nei Paesi a basso reddito. E molte volte lavorano terreni molto piccoli, di neanche cinque acri.

Il problema, però, è che le donne hanno minor accesso alle risorse, come ad esempio ai diritti sulla terra, ai capitali e crediti, a una formazione adeguata e, ovviamente, agli strumenti e alle tecnologie necessarie alla coltivazione. Di conseguenza, producono meno cibo rispetto agli uomini a fronte di una stessa quantità di terreno.

“Se colmiamo queste lacune – dice Katherine – potremmo ricavare il 20-30% in più di cibo dalle coltivazioni”. Ci sarebbe così meno deforestazione, e quindi un risparmio di almeno 2 miliardi di tonnellate di CO2 in 30 anni.

Educazione è emancipazione

Un altro punto importante toccato da Katherine è l’educazione femminile. Nel mondo, 130 milioni di ragazze non hanno accesso al sistema scolastico. Questo comporta enormi conseguenze negative. Si può dire, anzi, che è probabilmente una delle cause principali per cui l’emancipazione femminile è ancora un problema molto diffuso a livello globale.

In primo luogo, come abbiamo visto, le donne hanno spesso un ruolo importante nel nucleo familiare. Dovrebbero quindi essere le prime a ricevere le nozioni di base su, per esempio, cosa sia un tifone e come comportarsi in casi simili.

L’educazione, poi, aumenta le probabilità che una donna raggiunga una stabilità finanziaria e che quindi sia in grado di affrontare i cambiamenti climatici con più resilienza. Sarebbero in grado di sostentarsi anche in caso di perdita della casa o del terreno, senza dipendere dagli uomini o essere condannate alla miseria.

Potrebbero, poi, aumentare le fila di esperti e scienziati che ogni giorno lavorano per trovare soluzioni al problema del cambiamento climatico. Tendenzialmente, inoltre, le donne che intraprendono un percorso scolastico tendono a sposarsi più tardi e, quindi, ad avere meno figli.

Conseguenza, questa, anche di un’ educazione sessuale approfondita, che dovrebbe informare sulla contraccezione e la profilassi dalle possibili malattie veneree. Se vi fosse un maggiore controllo delle nascite, infatti, in 30 anni vi sarebbero un miliardo di persone in meno. Di conseguenza, sarebbero emesse 120 miliardi di tonnellate di CO2 in meno, altrimenti generate per soddisfare i bisogni di una popolazione in aumento.

Non è, però, soltanto una questione demografica. Una donna educata (scolasticamente) è più consapevole delle sue possibilità, del suo valore e della sua dignità. Si sente quindi libera di scegliere e di gestire il proprio corpo e le proprie risorse come meglio crede. Una donna può e deve generare figli esclusivamente per una scelta personale e non perché “capita”, o peggio, perché è ciò che la società si aspetta da lei. Anche qui, non serve arrivare all’Africa sub-sahariana. Negli Stati Uniti, il 45% delle nascite sono indesiderate.

Non vittime, ma risorse

Questo articolo non vuole però far passare le donne come vittime. Anzi. Spesso, proprio a causa del ruolo che ricoprono all’interno del nucleo familiare, hanno una maggiore conoscenza del loro ambiente e delle risorse rispetto alla controparte maschile. Se queste nozioni venissero unite a quelle degli uomini, non potrebbe che giovare alla resilienza dell’umanità ai cambiamenti climatici. Per questo e per il fatto che ad oggi la rappresentanza media delle donne negli organismi internazionali sul clima è inferiore al 30%, sono stati presi alcuni provvedimenti.

Per esempio, è stato inserito un Gender Focal Point che chiede a tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite di dichiarare i loro progressi sul gender gap all’interno dei loro confini.

Inoltre, nel 2017 la Commissione Europea ha pubblicato una call for proposals che ha messo a disposizione 20 milioni di euro per progetti di imprenditorialità femminile nel settore dell’energia sostenibile nei paesi in via di sviluppo.

Non è certo abbastanza, e molto di più può essere fatto in nome delle donne. Quello che non smetteremo mai di ripetere e che è anche il motivo che ci ha spinto a creare il nostro sito, è di attuare nel nostro piccolo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, rispettando le donne, i loro diritti e la loro dignità nella nostra vita di tutti i giorni.

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di Iris Andreoni
Mar 5, 2020
Nata a Milano nel 1991 ma bergamasca di adozione, è tornata nella sua città natale per conseguire la laurea specialistica in Lettere Moderne, un corso di studi che ha cambiato la sua vita e il suo punto di vista sul mondo. Ha infatti imparato ad approfondire e affrontare criticamente argomenti di varia natura e dare in questo modo priorità a ciò che nella vita è davvero importante. Il rispetto per l’ambiente è una di queste cose e, grazie ad alcuni libri e documentari, ma anche dopo due viaggi in Asia, Iris si interessa in modo particolare a questo ambito. Durante l’università scrive recensioni e interviste sul blog letterario Viaggio nello Scriptorium e, terminati gli studi, si appassiona al mondo del giornalismo, decidendo di sfruttare il grande potere della scrittura per comunicare al mondo i suoi interessi e le notizie più importanti. Collabora come redattrice con il giornale Bergamo Post e ha poi l’onore di frequentare il Corso di Giornalismo Ambientale Laura Conti organizzato da Legambiente. Qui conosce altri aspiranti giornalisti e insieme decidono di dare il loro contributo per informare l’Italia riguardo all’emergenza ambientale cui stiamo assistendo e di cui non molti sembrano essersi accorti. Per l’Ecopost Iris si occupa della redazione di contenuti e comunicazione sui Social Media.

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