Sciolte le ultime resistenze da parte di Bulgaria e Polonia, l’Italia è riuscita ad assicurarsi gli oltre 200 miliardi che l’Unione Europea verserà nelle nostre casse grazie al piano “Next Generation EU”, da noi conosciuto come “Recovery Plan”. Un’ottima notizia per il nostro paese, che nasconde comunque delle insidie. Specialmente se si guarda ai possibili risvolti ambientali. Se infatti da un lato un corretto impiego di queste risorse potrebbe dare inizio ad una storica svolta ambientalista in grado di pervadere ogni ambito della società, dall’altro, se questi soldi finissero nei progetti sbagliati, gli obiettivi dei tagli delle emissioni previsti dall’Accordo di Parigi e dal Green New Deal Europeo diventerebbero poco più di un miraggio per l’Italia.
La bozza del Consiglio dei Ministri sull’impiego del Recovery Plan
Uno degli ultimi scalini per ottenere i fondi è la presentazione di un piano dettagliato, inviato da Palazzo Chigi alla Commissione Europea, in cui si esplica in che modo si vorranno utilizzare questi soldi. Secondo quanto trapelato dal Consiglio dei Ministri dello scorso 7 dicembre, il Sole 24 ore ha riassunto quella che sarebbe una bozza del documento da spedire a Bruxelles.
Ben 123 miliardi di euro, ovvero poco più del 60% del totale, sarebbero destinati alla transizione verde e digitale. Di questa somma circa 74,3 miliardi dovrebbero essere investiti nella transizione ecologica ed energetica del Paese. In più ci sono circa 27,7 miliardi che dovrebbero essere impiegati per rendere più sostenibile il settore della mobilità, e non solo.
Andando ancora più nel dettaglio, come spiega il giornale di Legambiente “La Nuova Ecologia”:
40,1 miliardi saranno destinati all’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici, e dunque anche alla proroga del superbonus al 110%; 18,5 miliardi per la transizione energetica e la mobilità locale sostenibile, 9,4 miliardi per la tutela e la valorizzazione del territorio e della risorsa idrica e 6,3 per impresa verde e l’economia circolare, 9,1 per la ricerca all’impresa. Nella bozza sono inoltre previsti iter rapidi per nuovi progetti greenfield rinnovabili e investimenti per la produzione di idrogeno in siti brownfield e da elettrolisi, e progetti di ricerca e sviluppo per le applicazioni di idrogeno a usi finali. Tra le proposte, infine, c’è anche un riordino delle spese fiscali e della tassazione ambientale.
Una notizia “troppo buona per essere vera”, direbbero alcuni. E infatti, il rischio che possa andare tutto storto c’è. Ecco perché.
L’ombra di Eni e delle altre grandi compagnie
Che Eni, una delle più grandi multinazionali del petrolio, sia una società con un’ampia partecipazione dello Stato è ormai cosa nota. Così come lo è la consapevolezza che, fino ad oggi, è stata proprio l’azienda milanese a decidere la politica energetica di un Paese dove sole e vento non mancano di certo.
Ed ecco che il nostro governo, come denunciato a più riprese da Fridays For Future Italia con la creazione della campagna Non Fossilizziamoci, sta pensando di creare una task force che possa gestire “al meglio” i soldi del Recovery Fund. Secondo le prime indiscrezioni sembrerebbe che a farne parte saranno Claudio Descalzi, Francesco Starace, Marco Alverà, Gianfranco Battisti, Alessandro Profumo e Fabrizio Palermo, rispettivamente Amministratori Delegati di Eni, Enel, Snam, Ferrovie dello Stato, Leonardo-Finmeccanica e Cassa Deposito e Prestiti.
Cos’hanno in comune tutte queste compagnie? Sono a partecipazione statale. Un evidente conflitto di interessi che rischia di mettere in pericolo il corretto impiego di queste risorse facendole finire nelle tasche sbagliate. Alcuni di queste aziende sono infatti tra le principali responsabili della crisi climatica, Eni su tutte, ed affidarsi a loro per una ripartenza green del paese è a dir poco da ingenui, per non dire di peggio. Ed ecco che la montagna di soldi provenienti dal piano europeo di ripresa dalla pandemia, denominato “Next Generation EU” e caratterizzato dalla necessità di costruire un futuro vivibile per le future generazioni, rischia di diventare l’ennesimo flop per un Paese che, se continuerà a dare ascolto a chi ci ha trascinato in questa situazione, rischierà seriamente di restare indietro in modo irrimediabile.
Qualsiasi azienda che abbia anche un minimo interesse nel perseguire una folle politica energetica basata sui combustibili fossili, non può far parte del Comitato che decide come verranno impiegati i soldi destinati alle “future generazioni”.
CCS o carbon capture storage: l’ultima trovata mangiasoldi di Eni
Per fare un esempio concreto di come alcune di queste aziende intendano raggirare le indicazioni fornite dall’Unione Europea, che se non rispettate potrebbero far saltare l’intero accordo, parliamo del progetto di Eni che, come la maggior parte delle grandi multinazionali del fossile, sta puntando forte sul CCS – Carbon Capture Storage, ovvero il “Sequestro di Carbonio” dall’atmosfera. Lo stesso premier Conte ha parlato del progetto di conversione della centrale a gas di Ravenna in uno sito di stoccaggio del carbonio come di un “polo di eccellenza”.
Questa sigla, tanto accattivante quanto fuorviante, potrebbe costituire la pietra tombale dei buoni propositi ambientalisti. Grazie ad un’astuta strategia comunicativa, queste aziende stanno tentando di trovare una soluzione tecnologica che possa tirarci fuori dai guai. Guarda a caso, in questo modo, le grandi multinazionali potrebbero continuare ad inquinare come sempre hanno fatto – basti pensare agli ingenti investimenti nel settore del gas fossile e dell’idrogeno “verde”, che ancora così verde non è – invece di lavorare per abbattere le proprie emissioni, ponendo fine ad ogni speranza residua.
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Le possibilità che sarà questa tecnologia a salvarci, secondo gli esperti, sono molto vicine allo zero, principalmente perché siamo ancora lontani dall’avere progressi che potrebbero essere decisivi ed il tempo per salvare il pianeta sta scadendo. E questo lo sanno anche i grandi manager del settore fossile. Far rientrare il Carbon Capture Storage, all’interno delle buone pratiche green sarebbe l’errore più grande che possiamo commettere. Da un lato andremmo infatti a togliere soldi che potrebbero essere utili alla vera conversione ecologica del paese, dall’altro rischiamo seriamente di andare contro le direttive europee e, quindi, vederci revocato il trattamento di favore ricevuto con l’assegnazione di questi fondi.
Ad oggi, lo ribadiamo, l’unica soluzione credibile per limitare i danni del riscaldamento globale è un calo verticale delle emissioni, perseguibile solo attraverso la conversione ecologica dei vari settori economici. Ogni altro tipo di intervento è assolutamente inutile, se non dannoso. Non possiamo più fidarci di chi ci ha trascinato consapevolmente in questa situazione tragica senza mostrare un briciolo di rimorso e, soprattutto, dobbiamo smetterla di rifocillare le loro casse con soldi che non si meritano e di cui, con ogni probabilità, non hanno neanche troppo bisogno.
L’ultima spiaggia?
Il nostro Paese ha delle enormi potenzialità non sfruttate, soprattutto in termini di fonti di energia pulita. Se solo questa enorme quantità di denaro finisse nelle mani giuste, non ci vorrebbe molto per avviare un circolo virtuoso destinato a soppiantare nell’arco di pochissimo tempo il sistema energetico attuale. Un cambiamento che porterebbe più soldi allo Stato, che non dovrebbe più andare a comprare la materia energetica dall’estero, e al cittadino. Una situazione da cui trarrebbe vantaggio chiunque, tranne, per l’appunto, le aziende operanti nel settore fossile che, in mancanza delle sovvenzioni statali, non riuscirebbero a reggere la concorrenza di un settore sempre più competitivo ed innovativo, oltre che molto più democratico, come quelle delle energie rinnovabili.
Lasciare che siano i “soliti noti” a gestire quella che assomiglia sempre di più all’ultima occasione che ha il nostro paese per salire sul treno delle conversione ecologica, potrebbe farcelo perdere una volta per tutte. Con buona pace della “Next Generation”.