All’ultima conferenza della Cop25 i posti vuoti nella grande sala dell’IFEMA a Madrid erano tanti. Molti dei ministri erano partiti due giorni prima, il 13 dicembre, data nella quale la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite avrebbe dovuto ufficialmente concludersi. E’ stato invece necessario prolungarla di due giorni e due notti; un tempo in cui, però, i paesi partecipanti hanno risolto ben poco.
La più importante lacuna
La più importante questione irrisolta è quella dell’Articolo 6. L’accordo di Parigi del 2015, infatti, aveva previsto una risoluzione globale per controllare le emissioni di Co2 grazie a un sistema di compravendita tra le nazioni. Ogni Stato ha a disposizione, in base alle proprie disponibilità, un tetto massimo di emissioni da non superare. Se uno di essi fosse particolarmente virtuoso da emettere meno anidride carbonica rispetto al limite imposto, questo Stato potrebbe vendere la restante parte a un altro meno diligente. In questo modo le Nazioni potrebbero cooperare pacificamente tra di loro, senza ricorrere a pesanti punizioni economiche che allontanerebbero ulteriormente i governi da qualunque impegno ambientale.
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Uno degli obiettivi della Cop25 era però quello di aggiornare il tetto massimo di emissioni, in quanto i dati utilizzati per l’accordo di Parigi, non sono ormai più validi. Gli scienziati sostengono infatti che, anche rispettando i vecchi accordi sulle emissioni, la Terra supererà i 2 gradi, arrivando ai 3,5. Alcuni Paesi però non sono disposti a rinnovare il loro impegno sulla base dei nuovi dati. Per esempio, Cina, India, Brasile e Sudafrica hanno dichiarato di aver già fatto il possibile per quanto riguarda il clima. Il problema è che Cina e India sono responsabili da sole di un terzo delle emissioni mondiali di CO2. Anche l’Australia ha fatto un passo indietro, dichiarando di non voler cedere i suoi “carbon credit” guadagnati negli anni passati.
Gli insufficienti obiettivi raggiunti
Sono circa ottanta le Nazioni che si sono impegnate per aggiornarsi e ridurre maggiormente le emissioni. Un buon numero, certo, anche se si tratta di paesi che non ricoprono una grande importanza nel panorama mondiale. Questi paesi insieme infatti producono circa il 10 percento delle emissioni globali. Tra questi è presente anche l’Italia e molti altri Paesi europei. Molti osservatori, però, sottolineano come l’Europa, nonostante il nuovo Green New Deal, non abbia un grande peso rispetto ai colossi economici quali Cina, India o Stati Uniti. Questi ultimi, poi, sono nel bel mezzo del processo per l’uscita dagli accordi di Parigi.
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Passi avanti invece per quanto riguarda la questione dei diritti umani. I partecipanti alla Cop25 infatti hanno approvato il Gender Action Plan, che promuove i diritti e la partecipazione delle donne all’interno dell’azione climatica internazionale. Una buona iniziativa è anche quella del meccanismo Loss&Damage, richiesto dai piccoli stati insulari. Si tratta di un sistema per cui i Paesi del nord del mondo si impegnano ad aiutare quelli meno sviluppati ogniqualvolta vengano colpiti da catastrofi climatiche. Anche qui però vi è un rovescio (negativo) della medaglia. Se infatti i buoni propositi ci sono, manca però un fondo apposito.
Tutte le decisioni, dai fondi per i paesi colpiti dalle catastrofi alla decisione per ogni stato del proprio tetto massimo di gas serra, sono state rimandate alla Cop26 che si terrà a Glasgow l’anno prossimo. Il presidente delle nazioni unite Guterres, così come la giovane attivista Greta Thunberg, non sono affatto contenti della notizia. “La scienza è chiara, ma viene ignorata” ha twittato la ragazza nella giornata di sabato. Un anno, infatti, è molto, specialmente in un momento di emergenza climatica quale stiamo vivendo.