L’Islanda è anche soprannominata la Terra del fuoco. Sembra un controsenso, soprattutto se il nome viene accostato a quello inglese “Iceland” che significa, letteralmente, terra del ghiaccio. Nel sottosuolo di quasi tutta l’isola, però, si nasconde una miniera preziosissima di calore, dato dal fatto che l’Islanda è una terra vulcanica. E proprio questa parte sotterranea potrebbe diventare anche una enorme riserva di gas serra che, invece di essere dispersi in atmosfera, verrebbero “trasformati” in roccia, senza nuocere alla salute umana e ambientale.
Come funziona la trasformazione di CO2 in roccia
Il meccanismo dello stoccaggio del carbonio non è nuovo nel mondo dell’energia, tanto che è già stato implementato in altre aree del mondo oltre all’Islanda, come negli Stati Uniti e in Canada. Gli impianti tradizionali prevedono che la CO2 venga iniettata nel terreno e affinché questa, trascorso un certo periodo di tempo, si mineralizzi. A questo punto diventa, sostanzialmente, una roccia carbonatica, come può esserlo il marmo o il calcare.
Solitamente le rocce già presenti nel terreno, che sono impermeabili, fungono da “coperchio”, impedendo al gas di fuoriuscire. In Islanda, però, le rocce sono vulcaniche, quindi basaltiche e porose. Ciò significa che manca l’importantissima parte impermeabile che permette lo stoccaggio del gas. Ed è qui che è entrata in gioco CarbFix, che ha sviluppato un metodo grazie al quale la CO2, prima di essere immessa nel terreno, viene disciolta in acqua. In questo modo si crea un fluido pesante che tenderà a scendere molto in profondità nelle rocce, riducendo il rischio che il gas risalga in superficie.
Da dove viene la CO2 dell’Islanda
L’Islanda è considerata una delle nazioni più green al mondo. Questa remota isola dell’estremo nord infatti, grazie all’alta presenza di vulcani, ha a disposizione moltissima energia geotermica gratuita e rinnovabile. Circa l’80% delle abitazioni della nazione sono riscaldate e illuminate grazie alla geotermia che proviene, appunto, dall’acqua calda presente nel sottosuolo. Allo stesso tempo, però, l’Islanda è anche una delle nazioni che emettono più anidride carbonica, in rapporto al numero di abitanti. Come dimostrano i dati, nel 2017 la nazione ha prodotto ben 10,82 tonnellate di anidride carbonica pro capite. La terra del ghiaccio ha quindi superato di molto persino l’Italia, che ne ha prodotte “solo” 5,75.
Cosa ci sta sotto? Ovviamente l’industria pesante e tutto ciò che ne deriva, ovvero un grande profitto e, purtroppo, anche molto danno all’ambiente. Il settore industriale in Islanda contribuisce a produrre il 48% alle emissioni di anidride carbonica del paese. Nonostante questi impianti industriali siano alimentati da energia rinnovabile, idroelettrica e geotermica, la CO2 rilasciata nell’atmosfera è parte del processo di produzione di metalli. La più grande delle strutture industriali del paese produce infatti acciaio e alluminio, gran parte del quale viene esportato e utilizzato nell’industria automobilistica.
Il lato oscuro dell’energia pulita
L’impianto idroelettrico Kárahnjúkar genera 5.000 GWh all’anno, ovvero più di un quarto di tutta l’elettricità prodotta in Islanda nel 2016. Tutta questa energia, però, viene utilizzata per alimentare quella stessa industria di alluminio. Lo stesso discorso vale per l’enorme impianto geotermico di Hellisheiði. Come fa notare la rivista scientifica phys.org, questo è uno studiatissimo e insidiosissimo esempio di greenwashing. Infatti, una realtà virtuosa come può essere un impianto che produce energia rinnovabile può nasconderne un’altra che di green non ha assolutamente nulla.
Innanzi tutto Alcoa, la multinazionale che ha acquisito l’acciaieria, ha trovato un escamotage per pagare pochissimo il consumo energetico. Questo infatti sarebbe legato ai prezzi del volatile mercato globale dell’alluminio, senza quindi contare ciò che realmente spetterebbe all’Islanda per lo sfruttamento energetico. Inoltre Alcoa avrebbe scelto proprio l’Islanda per sfuggire al pagamento di alcune tasse cui avrebbe dovuto sottoporsi costruendo un’acciaieria nel “continente”. Ciò ha fatto sì che Reykjavík, il cui governo credeva di beneficiare della crescita economica data dall’acciaieria, non abbia guadagnato quanto era stato previsto. Sia in termini economici ma anche e soprattutto ambientali e sociali.
Infatti gli impianti energetici precedentemente nominati, costruiti, ricordiamolo, con il solo scopo di alimentare l’acciaieria, sono essi stessi dannosi per l’ambiente circostante. Innanzi tutto per la loro costruzione sono andati irrimediabilmente persi i fragili ecosistemi della zona; la popolazione ittica locale è crollata e quella di renne selvatiche ha perso parte dei suoi pascoli e dei suoi terreni riproduttivi. Per estrarre energia geotermica, poi, l’acqua calda o il vapore che risalgono in superficie spesso trasportano contaminanti, come lo zolfo o l’azoto. Questi elementi finiscono quindi in atmosfera o nei corsi d’acqua.
I risvolti ambientali di CarbFix
Ciò che è rimasto al territorio islandese non è altro che la necessità di costruire un’ ulteriore infrastruttura, come quella di Carbfix, per smaltire la enorme quantità di anidride carbonica prodotta dall’acciaieria. Questo quindi sarebbe lo scopo qualora il progetto si diffondesse nel resto del mondo: buttare sotto il tappeto, o meglio, sottoterra, la polvere derivante da un sistema economico sbagliato e insostenibile.
Per di più, anche CarbFix avrebbe un risvolto ambientale da non sottovalutare: il consumo eccessivo di acqua. Nell’impianto di Hellisheiði si utilizzano circa 27 tonnellate di acqua per ogni tonnellata di CO2 iniettata nel substrato roccioso. Edda Aradottír, project manager di CarbFix, afferma che l’acqua può essere riutilizzata dopo la mineralizzazione. Il problema si pone per le nazioni con meno acqua a disposizione rispetto all’Islanda che, almeno per ora, è ricchissima di ghiacciai e, quindi, di acqua pulita. Aradóttir e i suoi colleghi stanno sviluppando un modo per utilizzare l’acqua di mare. Tuttavia, questa ritiene molto di più rispetto all’acqua dolce e ne servirebbe una quantità maggiore. “In più gli elementi disciolti nel mare interferirebbero con la chimica del processo”, ha affermato Sandra Ósk Snæbjörnsdóttir, ricercatrice presso CarbFix.
Infine questa tecnologia è molto efficiente quando si tratta di stoccare altissime concentrazioni di anidride carbonica, ma potrebbe rappresentare un problema quando il gas “si presenta in quantità minori”. Questo palese controsenso apre molti quesiti ai quali ad oggi possiamo dare soltanto risposte scettiche e negative.
Eliminare la CO2 in Islanda? Il vero scopo di CarbFix
Sappiamo, ormai, che il riscaldamento globale è un processo irreversibile e poco contenibile. Progetti come CarbFix potrebbero quindi rivelarsi molto utili nel frenare la crisi climatica. Questo ragionamento, però, funzionerebbe solo a patto che industriali e politici non se ne approfittino. Non devono, quindi, usare queste nuove tecnologie come giustificativo per continuare ad inquinare oltre che creare disuguaglianze economiche e sociali nel mondo.
Il riscaldamento globale è infatti un danno che non deve essere sommariamente riparato. Piuttosto è un problema che deve essere eliminato alla radice. Se ciò avvenisse rappresenterebbe l’anticamera di una nuova era nella quale l’energia pulita sia davvero pulita e in cui CarbFix potrebbe essere usato per disfarsi di gas serra emessi solo in via eccezionale e con motivazioni eticamente valide.
Leggi anche: “Il film Downsizing mostra che la tecnologia non è la soluzione“