Dopo una battaglia durata 8 lunghi anni, la compagnia petrolifera anglo-olandese Shell è stata condannata dalla Corte Internazionale di Giustizia per aver provocato un enorme disastro ambientale.
Le terre circostanti al delta del fiume Niger sono state danneggiate a causa di ingenti fuoriuscite di petrolio.
Gli abitanti del luogo saranno finalmente risarciti.
Non è un incidente, ma un volontario disastro ambientale
1640 barili è la quantità di petrolio che gli impianti di Shell hanno riversato sulle terre circostanti al delta del fiume Niger, distruggendole completamente.
Per capire l’entità del danno considerate che un barile di petrolio equivale circa a 159 litri. Pensate ora di versare sul terreno l’equivalente di 130.380 bottiglie di acqua da due litri ciascuna, però contenenti petrolio.
La stima è stata realizzata da Accufacts Inc, mentre Amnesty International, ente che ha diffuso la notizia, ha stimato addirittura una quantità superiore ai 100.000 barili.
Sì, perché a diffondere la notizia ovviamente non sono stati i media. Se non fosse per merito di Amnesty International, questo gravissimo disastro ambientale sarebbe finito direttamente nel dimenticatoio.
Una causa durata 13 anni
La documentazione dimostra che da anni, precisamente dal 2008, la compagnia petrolifera era a conoscenza delle perdite degli impianti ormai obsoleti, ma aveva deciso di non assumersi alcuna responsabilità.
Ha scelto per anni di non tenere in considerazione la vita degli abitanti del luogo che sono soliti coltivare le terre o dedicarsi alla pesca per ricavare cibo per vivere una vita dignitosa.
Inutile ribadire a questo punto che, anche questa volta, gli interessi economici di un’azienda sono stati più importanti della vita delle persone residenti in questa zona del mondo, già di per sé sicuramente non ricca.
Shell ha avuto il coraggio di arrecare consapevolmente un danno inestimabile ad una popolazione povera.
Ricordiamo inoltre che l’aspettativa di vita nella zona attorno al delta del Niger è di 10 anni inferiore rispetto a quella nel resto della Nigeria.
Le persone non hanno uno standard di vita alto e senza dubbio non hanno bisogno di terre e acque inquinate, che contaminano il raccolto e la pesca di sostanze tossiche per la salute.
Sono state esaminate le acque di alcuni pozzi, utilizzati dalla popolazione per la propria igiene personale, per bere e cucinare che presentavano livelli altissimi di benzene, una sostanza ultra cancerogena per l’organismo.
Le acque presentavano valori di mille volte superiori alla soglia tollerata dalla legge nigeriana di 3 µg/L.
Già nel 2008 fu avviata una causa contro la compagnia petrolifera e durante il procedimento in tribunale vennero a galla le responsabilità dell’azienda, che lasciava in funzione gli impianti pur sapendo che fossero difettati e vecchissimi.
La Shell tuttavia si giustificò affermando che le perdite dell’impianto riguardavano nello specifico la filiale situata in Nigeria e che quindi avrebbe dovuto rispondere al danno in base alle normative vigenti nel Paese.
Un piccolo riscatto per la popolazione
Gli abitanti del luogo, insieme alla filiale olandese dell’ ONG Friends of the Heart, hanno portato avanti le loro accuse nei confronti della Shell per 13 lunghi anni.
Secondo quanto afferma la Common Law inglese, le persone che subiscono gravi danni a causa di carenze in materia di salute, sicurezza e ambiente in una filiale estera di una multinazionale inglese devono essere assistite.
Ora, infatti, Shell è stata obbligata a:
- risarcire gli abitanti dei villaggi di Oruma, Goi, Ikot Ada Udo;
- bonificare tutti i 400 metri quadri di suolo danneggiato dalle emissioni di petrolio
La responsabilità del disastro ambientale non è quindi solo della sede Nigeriana, ma anche della società madre, Royal Dutch Shell, che avrebbe dovuto fin da subito mettere in sicurezza l’impianto con un sistema di rilevazione delle perdite, cosa che adesso è obbligata ad installare.
Channa Samkalden, avvocato della parte lesa, afferma: ‘’C’è finalmente giustizia ma questo caso mostra anche che le società europee devono comportarsi in modo responsabile all’estero’’.
Senza dubbio un grande passo in avanti, ma è indicativo il fatto che ci siano voluti tutti questi anni per arrivare ad una conclusione.
Le condizioni ambientali nel frattempo sono peggiorate sempre di più. Se Shell avesse ammesso i suoi errori fin dall’inizio, si sarebbe evitato il disastro ambientale, bonificando subito la zona interessata.
Il problema è che questa causa vinta non è all’ordine del giorno: di solito risulta veramente difficile schiacciare le grandi multinazionali, anche se si porta avanti una causa più che legittima.
Il ‘’coltello dalla parte del manico’’ appartiene sempre al ricco a prescindere dall’eticità delle sue azioni e le multinazionali del petrolio hanno il controllo sulle terre circostanti al delta del Niger da oltre mezzo secolo.
È chiaro che questa sentenza rappresenta una vittoria per tutti gli ambientalisti ma, affinché le aziende si mettano una mano sul cuore (e non come sempre, solo sul portafogli), è necessario che vengano redatte norme internazionali per la tutela dei territori.
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