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Li compriamo a pochi euro, magari in superofferta. Non ci chiediamo con che materiale siano stati prodotti, né tantomeno la loro impronta ambientale. Ma, risciacquo dopo risciacquo, i nostri indumenti rilasciano fibre di poliestere. Le microplastiche di meno di cinque millimetri inquinano prima i mari e gli oceani, per arrivare fino ai Poli. L’impatto è devastante, come dimostra uno studio dell’Università della Columbia Britannica, in Canada, pubblicato da Nature Communications. Siamo pronti a cambiare?
Il team di scienziati ha monitorato la diffusa distribuzione di questi contaminanti in acque marine vicine alla superficie di 71 stazioni, nell’Artico europeo e nordamericano. Dalle ricerche effettuate, sono riusciti a ricostruire anche il viaggio che queste particelle compiono. La prima domanda è: da dove arrivano? Gli esperti suggeriscono che le fibre di poliestere recenti siano trasportate nell’Oceano Artico Orientale, attraverso gli ingressi dell’Oceano Atlantico oppure trasportati da Sud, tramite l’aria. Da questo punto di partenza, hanno collegato la quantità di scarti alla produzione tessile alle acque reflue provenienti dalle lavatrici domestiche.
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La presenza di fibre tessili è pervasiva
«C’è un forte sospetto che il bucato, l’abbigliamento e i tessuti stiano giocando un ruolo significativo nella contaminazione degli oceani del mondo con microfibre» afferma Peter Ross, professore di Scienze della Terra, degli Oceani e dell’Atmosfera, a capo della spedizione. In un suo elaborato divulgativo, ha spiegato al pubblico questa amara scoperta, con dettagli interessanti. Nei 20mila chilometri percorsi, hanno documentato ogni tipo di colore immaginabile: dal rosso al blu, dal giallo al verde. Insomma, un arcobaleno inquinante, che viene ingerito da pesci, uccelli e mammiferi marini. Le dimensioni, infatti, sono ridottissime. Il 92% del materiale è composto da fibra, con una media di 14 micron di spessore e 1,1 millimetro di lunghezza.
Anche la densità, in queste zone così remote, spaventa. Hanno trovato una media di 49 particelle di microplastica per metro cubo in mare in tutto l’Artico. Questo dato deve mettere in guardia, visto che si avvicina particolarmente ai livelli riscontrati negli oceani. E i tipi di tessuto ritrovati sono compatibili con quelli catalogati durante una ricerca analoga nelle acque reflue domestiche di Vancouver e riconducibili al bucato. Una stima recente ha quantificato gli sversamenti in 878 tonnellate di fibre all’anno, solamente delle famiglie statunitensi e canadesi. In fondo, però, dobbiamo ammettere che il poliestere è comodo. È sintetico, si può utilizzare da solo o insieme a fili naturali e si adatta a diverse condizioni d’uso. Ma è proprio nella sua versatilità, che si nasconde il problema.
Le microplastiche non si trovano solamente al Polo Nord
Anna Kelly, dottoranda di ricerca all’Istituto per gli studi marini e antartici della Tasmania, ha pubblicato, nel maggio scorso, uno studio sulle microplastiche in Antartide. Ha identificato 14 tipi di polimeri -macromolecole costituite da particelle più piccole, chiamate monomeri- contenute in un carotaggio estratto nel 2009. L’analisi successiva ha constatato una concentrazione maggiore rispetto a quella dell’Oceano Meridionale. Questo potrebbe derivare dal turismo, dalle stazioni di ricerca e dal traffico marino, visto che i residui, non ancora scomposti, sarebbero troppo freschi per essere stati trasportati dalle correnti.
La fauna è a rischio di bioaccumulo di materiale plastico. Il Professore Delphine Lannuzel, co-autore della ricerca, in un’intervista al The Guardian, si dice preoccupato. «Il ghiaccio marino è l’habitat per alcune specie chiave. […] Il Krill definisce tutto il resto della catena alimentare e si affida alle alghe di ghiaccio marino per crescere. » In questo modo, hanno scoperto che le plastiche erano circondate da alghe, cresciute nel ghiaccio.
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Microplastiche: quali soluzioni?
Anche se questa notizia non rassicura, come molte che riguardano l’ambiente, esiste però un lato positivo. Non tutto è perduto. Visto che si conoscono le conseguenze, si può agire. Lo stesso Peter Ross elenca alcune soluzioni, che possono aiutare a diminuire il nostro impatto sull’oceano. Innanzitutto, bisogna diversificare. Non tutti i tessuti sono uguali. Molte aziende di design si affidano a nuovi metodi sostenibili per la fabbricazione dei loro capi. Le perdite possono essere ridotte drasticamente. Si stima, infatti, che ci sia una differenza di 800 volte tra materiali a basso e alto spargimento di fibre. Esistono, poi, in commercio, alcuni filtri, da installare sulle proprie lavatrici, che riducono il rilascio fino al 95%.
Altri due inviti vogliono includere sia scelte personali che strategie collettive. La prima si rivolge ai consumatori, a ognuno di noi. Possiamo optare per tessuti naturali, poco lavorati o lavorati con modalità sostenibili e che durino nel tempo. La seconda deve essere una visione comune, basata sull’opportunità di slancio economico e ambientale, che i governi devono tenere in considerazione riguardo alla plastica. Un’agenda dettagliata internazionale può portare a un innalzamento degli standard di controllo sulla qualità dell’acqua. Una proposta è arrivata dal Canada, al G7 -un’organizzazione intergovernativa di cui anche l’Italia fa parte- per la sottoscrizione di una Carta sulla Plastica negli Oceani.