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L’ONU propone un divieto per i mercati di animali selvatici

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Ci voleva una pandemia di dimensioni epocali perché accadesse. Alla fine però anche l’ONU ha deciso di schierarsi contro i mercati di animali selvatici.

A prendere questa posizione ci ha pensato Elizabeth Maruma Mrema, Segretario Generale della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità. Una misura già temporaneamente adottata dalla Cina che tuttavia non ha mai detto di volerli eliminare in maniera permanente.

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I mercati di animali selvatici come veicolo di virus mortali

Come tutti sappiamo la diffusione del CoronaVirus ha la sua origine proprio in uno di questi mercati di animali selvatici. Ma la Cina non è l’unico paese in cui è uso comune consumarli. Pipistrelli, coccodrilli, civette e pangolini sono solo alcune delle specie coinvolte. Questi ultimi, ad esempio, sono considerati a rischio estinzione proprio per via dell’eccessivo bracconaggio da parte dell’uomo. In Cina si pensa che le sue scaglie abbiano poteri curativi e non è ancora escluso che il vettore del virus sia proprio un esemplare di questa specie, oltre al già conclamato pipistrello.

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Passiamo ora al dato più eloquente. Tutte le peggiori epidemie della storia recente sono state una conseguenza del passaggio di un virus dall’animale all’uomo. Una grafica creata appositamente dal WWF ci può aiutare a comprendere la gravità di questo fenomeno.

Le pandemie della storia recente

Andiamo in ordine cronologico:

  • 1967, virus Marburg. Paese di origine: Uganda. 590 infetti, 478 morti. Tasso di mortalità dell’81%. Passaggio all’uomo dal pipistrello.
  • 1976, virus Ebola. Paese di origine: Congo. 14.693 vittime. Passaggio all’uomo dal pipistrello.
  • 1996, virus Nipah. Paese di origine: Malesia. 496 contagiati, 265 vittime. Tasso di mortalità del 53%. Passaggio all’uomo dal pipistrello.
  • 2002, virus Sars. Paese di origine: Cina. 774 vittime. Passaggio all’uomo da pipistrello e topo.
  • 2009, influenza suina. Paese di origine: USA e Messico. 429 vittime. Passaggio all’uomo da maiale.
  • 2012, MERS. Paese di origine: Arabia Saudita. 858 vittime. Passaggio all’uomo da cammello.
  •  2013, influenza aviaria. Paese di origine: Cina. 616 vittime. Passaggio all’uomo da pollo.
  • 2019, CoronaVirus. In corso.
Credit: WWF Italia

Il termine specifico per definire questi virus è “zoonosi” e, come si evince da questi dati, l’origine di queste malattie non è da trovarsi solamente in animali meno soggetti al commercio. Ne sono un esempio lampante l’influenza aviaria e quella suina. Per chiunque volesse approfondire l’argomento consigliamo la lettura di “Spillover”, un libro del 2012 di David Quammer in cui lo scienziato americano spiega come alla base di queste epidemie ci sia la distruzione di ecosistemi, oltre che il commercio illegali di animali. Alcuni report sostengono inoltre che il 75% delle malattie umane conosciute deriva proprio dalla fauna, non solo selvatica.

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In virtù di queste considerazioni risulta evidente come il nostro eccessivo desiderio di alimenti di origine animale, insieme alla già citata perdita di biodiversità, aumenta il rischio di pandemie su scala globale.

L’impatto ambientale dei mercati di animali selvatici

Già abbiamo parlato, non solo in questo articolo, della necessità di ridurre il nostro impatto sugli ecosistemi per salvaguardare, oltre alla nostra salute, anche quella del pianeta in cui viviamo e da cui dipendiamo. Tuttavia, nonostante i ripetuti campanelli d’allarme che arrivano dalla scienza, non sembra che la cosa ci interessi.

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E quello del settore degli allevamenti

Il consumo di carne, di ogni tipo, cresce costantemente a livello globale. Tralasciando per un secondo il discorso legato alle pandemie, occorre focalizzarsi anche sull’impatto che il nostro desiderio di carne e derivati ha sul nostro pianeta. Gli allevamenti di bestiame, non solo quelli intensivi, richiedono un enorme dispendio di risorse.

Una mucca da latte, ad esempio, può arrivare a bere circa 150 litri di acqua al giorno. Così come un manzo necessita di circa 40 kg di mangime al dì. Moltiplicate questi numeri per il numero di capi che attualmente alleviamo su scala globale, che è nell’ordine delle decine di miliardi.

Ora pensate alla quantità di risorse che impieghiamo per produrre questi mangimi che, oltre ad occupare dei terreni che potrebbero essere utilizzate per produrre cibo utile a sfamare quella fetta di popolazione mondiale che soffre di malnutrizione, sono spesse figlie di abbattimento di ampie aree di foreste (vedi i campi di soia dell’Amazzonia) e che, nella maggior parte dei casi, richiedono l’utilizzo di pesticidi su larga scala.

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A tutte queste complicazione vanno aggiunte le emissioni generati dagli scarti degli allevamenti come i liquami, che spesso finiscono per inquinare le falde acquifere, e le eruttazioni e gli escrementi degli animali che emettono metano, ovvero un gas serra climalterante che contribuisce al cambiamento climatico.

Secondo la FAO tutti questi fattori contribuiscono a circa il 17% delle emissioni di gas serra su scala globale – per fare un paragone il contributo del settore dei trasporti è del 13% – anche se secondo molti ambientalisti, molti dei quali hanno scelto diete vegetariane o vegane proprio per questo motivo, questa stima è inferiore rispetto al reale impatto del settore.

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In ultimo pensiamo al problema dell’acqua. Già oggi sono nell’ordine delle centinaia di milioni le persone che non accesso all’acqua potabile e la situazione è destinata a peggiorare con l’avanzare dei cambiamenti climatici. Basti pensare agli innumerevoli bacini idrici sotto stress in ogni angolo del pianeta. Il tutto mentre noi occidentali ci permettiamo di dare 150 litri d’acqua al giorno ad ogni mucca da latte. Suonerà come un’affernazuibe “buonista” ma è proprio così.

Quale conclusione?

Tutte queste considerazioni non possono che mettere in questione la sostenibilità del consumo di prodotti di origine animale e, più in generale, il valore etico e morale del modello di sviluppo occidentale. L’impatto che questo nostro desiderio ha sulla salute di tutti noi e sull’ambiente che ci circonda non è più trascurabile, soprattutto in una fase storica in cui la popolazione mondiale sta crescendo a dismisura. In questi giorni abbiamo l’occasione di riflettere sulle nostre abitudini di consumo. Facciamolo. La sabbia nella clessidra scende, più velocemente che mai. Se non vogliamo essere travolti da catastrofi più grandi noi, come possono essere le pandemie o gli effetti dei cambiamenti climatici, dobbiamo cambiare. In fretta.  

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di Luigi Cazzola
Apr 9, 2020
Nato nel 1991 a Fano, laureato in Lingue e Comunicazione. Marketer di professione e diverse esperienze all’estero alle spalle. Da ormai qualche anno ambientalista convinto, a Settembre 2018 arriva la svolta che stava aspettando. Viene selezionato per il “Corso di Giornalismo Ambientale Laura Conti”, dove può finalmente approfondire tematiche relative tanto al giornalismo quanto all’ambiente. Fermamente convinto che la lotta al cambiamento climatico sia la più importante battaglia della sua generazione, decide di mettere le competenze acquisite al servizio di tutti per accrescere la consapevolezza legata a questo tema e fornire consigli pratici per orientare le scelte dei singoli verso un approccio più green grazie ad un consumo più critico e consapevole. Per L’Ecopost si occupa di redazione di contenuti, sviluppo Front-End e comunicazione sui Social Media.

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