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Perché il cibo biologico è più caro del cibo convenzionale

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Il termine “biologico” è uno dei più inflazionati degli ultimi tempi. Gli scaffali dei supermercati si sono riempiti di prodotti “verdi” che rispondono alla crescente domanda e alla maggior attenzione ambientale dei consumatori. Dagli anni Novanta, il cibo biologico ha registrato una crescita costante, stimata fra il 5 e il 10% annuo nell’ultimo decennio. Nello scenario Europeo, la Danimarca rappresenta il primo paese per vendita di prodotti biologici, mentre l’Italia e la Spagna primeggiano in termini di ettari coltivati con metodi biologici.

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Il più grande ostacolo alla diffusione su grande scala rimane però l’elevato prezzo del cibo biologico rispetto al cibo convenzionale. La maggior parte dei prodotti biologici risulta ancora non sostenibile per una famiglia media; perciò, per poter arrivare a fine mese, si finisce per ricadere sui prodotti a basso prezzo offerti dalle grandi catene. Allo stesso modo, i produttori biologici hanno ben poco margine di ribasso del prezzo, poiché devono fare i conti con numerose variabili economiche ed ambientali. Il cibo biologico quindi, nonostante la globale crescita registrata, viene percepito dall’immaginario collettivo come un prodotto d’élite non accessibile a tutti.

Perchè il cibo non biologico costa così poco

Lo scetticismo del consumatore medio deve essere contrastato con un ribaltamento della domanda: invece di chiedersi “perché il cibo biologico costa così tanto?”, le persone dovrebbero iniziare a indagare sul perché il resto del cibo può essere venduto ad un prezzo così basso dalle grandi catene. In questo modo, è possibile dare numerose risposte. La supremazia delle grandi catene non è avvenuta in maniera casuale. Il loro monopolio “from farm to fork” (dal campo alla forchetta) è stato reso possibile grazie alle politiche neoliberali adottate dagli anni ’80 in avanti. L’abolizione delle barriere commerciali e l’allentamento del regolamento statale hanno rafforzato il ruolo dei privati nel mercato del cibo. Di conseguenza, le multinazionali hanno potuto fissare dei prezzi che non tenessero conto delle cosiddette “esternalità”, ovvero tutti i costi sociali ed ambientali nascosti dietro la vendita di cibo.

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I costi nascosti dalle multinazionali

Sono considerate “esternalità”, ad esempio, le grandi quantità di prodotti chimici inserite nei campi per ottenere quanto più raccolto nel minor tempo possibile; le tonnellate di anidride carbonica emesse per il trasporto e l’imballaggio di prodotti che si spostano da una parte all’altra del mondo; la riduzione a schiavitù di animali e dipendenti nei campi e nelle fabbriche; gli insostenibili orari di lavoro imposti alle cassiere nei supermercati, da cui derivano pesanti ricadute sulla salute fisica e mentale. Questi ed altri costi “extra” della grande distribuzione organizzata (GDO) non sono presenti nel costo finale visibile nello scontrino. Eppure la società finisce per pagarli in ogni caso, perché vengono “esternalizzati” sull’ambiente e sulla salute. Uno studio di esperti ha calcolato che, per ogni dollaro che viene pagato alla cassa delle grandi catene, la società paga altri due dollari in termini di salute o costi ambientali.

Nello scenario italiano, un esempio concreto proviene dalle aste online promosse da famosi discount come Eurospin. L’agente della GDO apre una gara in cui vince il prezzo peggiore avanzato dai vari fornitori, disposti a tutto pur di rimanere nel mercato. A rimetterci è l’intera filiera: in primo luogo i lavoratori, privati di ogni diritto, costretti a sottostare a orari inumani e a pessime condizioni igienico-sanitarie; in Italia questo problema si è esacerbato nel fenomeno del caporalato, specialmente diffuso al Sud. Conseguenze altrettanto pesanti sono riversate sui consumatori, che rincorrono la cifra più bassa senza rendersi conto del prezzo nascosto da pagare.

Il cibo biologico come scelta etica

Come si inserisce l’espansione del cibo biologico in queste dinamiche? Da una parte, l’aumento delle vendite in questo settore testimonia un parallelo aumento di consapevolezza del consumatore; l’aumento del bio testimonia che sempre più persone si interrogano sulle conseguenze che possono derivare dalla scelta del prodotto. D’altro canto però, l’allineamento delle grandi catene al biologico non può limitarsi a marginali modifiche degli ingredienti o dell’etichetta. Il rischio che si corre nella corrente moda ecologista, è che le multinazionali vedano nel cibo biologico un modo come tanti di trarre profitto. Si creano prodotti più “verdi” o “verso natura” che illudono il consumatore, senza reali trasformazioni lungo la filiera del cibo. Il cittadino medio rimane quindi dentro la grande distribuzione, con la coscienza sollevata e nessun tangibile cambiamento nel proprio modo di fare la spesa.

Biologico e chilometro zero

I grandi risvolti sociali e ambientali che derivano dalla produzione del cibo possono essere affrontati solo se al termine “biologico” viene affiancata la provenienza “locale” del prodotto. Stanno infatti nascendo numerose organizzazioni e negozi bio specializzati, dove è possibile avere un contatto diretto con il produttore della zona. Tramite i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) o le varie reti di produttori biologici, il consumatore ha modo di conoscere di persona la storia dell’azienda: il modo in cui vengono evitati concimi chimici, il numero dei dipendenti, il contesto sociale in cui le medio-piccole imprese si inseriscono.

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Il costo più elevato del cibo biologico viene in questo modo “interiorizzato” in una filiera di corto raggio, detta anche “a chilometro zero”. Produttore e consumatore collaborano insieme per stabilire un prezzo che rispetti lavoratori, ambiente e salute dei cittadini. Le storie di successo di alcuni produttori che operano nel settore biologico da decenni, hanno dimostrato che il cibo non può e non deve essere percepito come una semplice merce da vendere nel mercato. Occuparsi di cibo significa compiere una sfida culturale in cui alimentazione, natura, salute ed educazione si influenzano a vicenda.

La politica deve fare la sua parte

Anche la politica svolge un ruolo fondamentale per la promozione di un cambiamento radicale. I sussidi ai produttori biologici rappresenterebbero soltanto la prima fase di un percorso che prevede ulteriori drastiche decisioni: una stretta regolamentazione delle multinazionali e della GDO; una forte spinta all’educazione ambientale nelle scuole e nelle amministrazioni pubbliche; l’interconnessione dei vari dicasteri per affrontare problemi anch’essi interdipendenti. Il fenomeno del caporalato sopra menzionato, per esempio, è nato come problematica agricola, ma ha presto intercettato il bacino di migranti irregolari; migranti che vagano nel nostro paese in mancanza di una legge che permetta loro di trovare un lavoro in modo legale. Agricoltura e sicurezza, ambiente e diritti umani, educazione e buona informazione. Il cibo biologico non dovrebbe essere limitato a qualche nicchia privilegiata, bensì diventare un diritto fondamentale di tutti, per la salute delle persone e del pianeta intero.

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di Federica Bilancioni
Set 7, 2019
Nata nel 1994 a Fano, si laurea in Storia all’Università di Bologna. Decide poi di iscriversi alla magistrale Global Cultures ed è grazie ad una materia specifica di questa magistrale che si appassiona alla tematica ambientale. Dal 2017 infatti, Federica fa ricerca sul cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. Dopo l’Erasmus a Lund (Svezia), la sua vita si orienta ancora di più in questa direzione, organizzando conferenze e dibattiti sulle tematiche ecologiche. Nel 2019 si iscrive al Master di I livello Comparative Law Economics and Finance presso l’International University College di Torino. Negli anni universitari collabora con Limes Club Bologna e scrive articoli per limesonline e Affari Internazionali. Attualmente insegna lettere e collabora con L’Ecopost per aumentare la copertura di stampa sulla crisi ecologica e diffondere buone pratiche per mitigarla.

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