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Esiste il punto di non ritorno? Tutti ne parlano e nessuno passa all’azione

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Tempo di lettura 4 minuti

In materia ambientale, tutti parlano del punto di non ritorno. Anche il titolo del film di Leonardo di Caprio è stato tradotto così: “Il punto di non ritorno”, mentre nella versione originale si intitolava Before the flood. Sono parole sempre più utilizzate, che descrivono la crisi climatica per quello che è: un processo che anno dopo anno sta diventando irreversibile. Ma come si fa a misurare il punto di non ritorno? Come fanno gli scienziati a stabilire che esiste un punto in cui il sistema terrestre smetterà definitivamente di avere un equilibrio? Abbiamo veramente solo otto anni per salvare il pianeta?

I fatti inconfutabili sulla crisi climatica

Partiamo dalle certezze. La temperatura terrestre si è alzata di un grado a livello globale rispetto ai livelli preindustriali, di cui 0.8 soltanto negli ultimi 40 anni. La NASA attesta che la maggior parte delle ricerche riconduce questo innalzamento al fattore umano. Si parla di sesta estinzione di massa perché la biodiversità ha subito perdite catastrofiche, sempre nell’arco di pochi decenni. Soltanto con gli incendi in Australia degli ultimi mesi, si è stimata una riduzione della popolazione dei koala del 30%.

Leggi il nostro articolo: “Australia, troppi animali a rischio estinzione”

Questo è quello che è successo fino ad oggi. Certezze. Fatti. Solo pochi pazzi possono mettere in discussione questi dati. Il dibattito diventa più complicato quando si parla del futuro. Cosa succederà negli anni a venire? Gli scenari variano dalle stime più ottimistiche, che si augurano di rimanere entro la soglia di 1.5 o 2 gradi, a quelle più catastrofiche, nelle quali si prevede un aumento di temperatura fino a 4.6 entro fine secolo. Il nuovo rapporto UNEP ci offre delle cattive e delle buone notizie a questo riguardo.

La “buona notizia” è che lo scenario più pessimistico sembra ora molto più improbabile: grazie alle politiche ambientali adottate negli ultimi dieci anni e al crollo di prezzi delle energie pulite, lo scenario di 4.6 gradi è diventato “considerevolmente meno probabile”. Al momento saremmo quindi sulla strada di 3.2 gradi entro fine secolo. Non vi sembra una buona notizia? Non lo è infatti, perché aumentare di altri due gradi la temperatura media globale porterebbe a conseguenze inimmaginabili. E se questa viene venduta come “buona notizia”, qual è la cattiva?

Il punto di non ritorno: il budget di carbonio e i confini planetari

Il nuovo rapporto UNEP mette in guardia su come sia praticamente impossibile rimanere entro la soglia di 1.5 gradi. Il limite di 1.5 era stato adottato dall’IPCC nel 2018, rivedendo al ribasso le stime di qualche anno prima perché considerate troppo ottimistiche. Da quel rapporto era nata la famosa frase: “Abbiamo 10 anni per salvare il pianeta”. Seguendo i calcoli del nuovo rapporto UNEP, gli anni si sarebbero ridotti a 8. Avremmo cioè solamente otto anni con un budget di emissioni pari a quelle attuali per raggiungere una temperatura media globale di 1.5 gradi in più rispetto ai livelli preindustriali. Che siano dieci o otto, il tempo a nostra disposizione è di fatto un battito di ciglio paragonato alla vita della Terra, iniziata più di tre miliardi di anni fa.

Esistono anche altri modelli per calcolare il punto di non ritorno. Fra quelli più utilizzati, ci sono certamente i “confini planetari” (planetary boundaries) di Johan Rockstrom. Il gruppo dello Stockholm Resilience Centre da lui guidato cercò di individuare i principali settori dell’equilibrio terrestre e di stabilire uno “spazio operativo sicuro” oltre il quale si avrebbero conseguenze catastrofiche. Al momento della sua elaborazione nel 2009, tre settori su nove risultavano già oltre la soglia: il cambiamento climatico (inteso nel senso stretto di effetto serra e aumento della temperatura), il ciclo dell’azoto e del fosforo e la perdita di biodiversità.

La perdita di biodiversità

Il modello dei confini planetari ci offre una visione innovativa rispetto al calcolo di budget di carbonio: infatti, questo modello sottolinea come l’effetto serra, e il conseguente aumento di temperatura, sia solo uno spicchio di un sistema molto più complesso. Per esempio, dallo schema dei confini planetari si evince che attualmente il problema più grave consiste nella perdita di biodiversità (recentemente rinominata “integrità della biosfera”). È quindi la perdita di biodiversità che ci porterà al “punto di non ritorno”?

Rockstrom stesso ha rigettato il concetto di “punto di non ritorno”, ammettendo che è praticamente impossibile stabilire come e quando il mondo cesserà di avere un equilibrio. Egli sostiene però che, con i livelli attuali di perdita di biodiversità, rischiamo di avvicinarci “ad un punto critico”: “la composizione degli alberi, delle piante, dei microbi nel suolo, del fitoplancton negli oceani, dei grandi predatori negli ecosistemi…tutto questo costituisce uno dei fattori fondamentali che contribuiscono a regolare lo stato del pianeta”.

A cosa serve parlare del punto di non ritorno?

Non mancano anche in questo caso le critiche. Il ricercatore José Montoya sostiene per esempio che il modello dei confini planetari stia facendo più male che bene al fine di salvare il pianeta. Nella sua opinione, indicare dei livelli di irreversibilità dà l’impressione che ancora sia concesso emettere e danneggiare il sistema Terra, fintanto che non superiamo il limite. Quindi, il modello dei confini planetari promuoverebbe un atteggiamento “business-as-usual”, distraendoci dall’attuare azioni che sono urgentemente necessarie.

Il dibattito rimane aperto. Così come gli scenari sul futuro prossimo verranno nuovamente rivisitati e aggiornati. Resta un quesito che va oltre le dispute accademiche e che riguarda tutti noi: parlare del punto di non ritorno ci aiuta a passare all’azione? Infatti, se continuiamo a parlare del tempo che abbiamo a disposizione, rischiamo di finire sul serio il tempo che abbiamo a disposizione. Il modo in cui discutiamo della crisi climatica è cruciale: il messaggio chiave che dovrebbe passare non è tanto quando e come il mondo finirà, bensì quando e come iniziamo ad agire.

Leggi il nostro articolo: “La crisi climatica è la nostra guerra. L’unica per cui dobbiamo mobilitarci”

Ciò che serve è passare all’azione

Il presente che abbiamo davanti agli occhi è già una prova inconfutabile che l’equilibrio terrestre si sta deteriorando. Fare ipotesi sul futuro è compito degli scienziati. La politica e l’opinione pubblica dovrebbero consultare questi scenari solo al fine di passare immediatamente all’azione nel presente. Altrimenti finiremo come nella famosa immagine di Cordal: con l’acqua fino al collo, a dibattere di ipotesi che sono già realtà, senza avere più tempo per agire.

Credit: Cordal, “Follow the leaders,” Berlin, Germany, April 2011

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di Federica Bilancioni
Gen 21, 2020
Nata nel 1994 a Fano, si laurea in Storia all’Università di Bologna. Decide poi di iscriversi alla magistrale Global Cultures ed è grazie ad una materia specifica di questa magistrale che si appassiona alla tematica ambientale. Dal 2017 infatti, Federica fa ricerca sul cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. Dopo l’Erasmus a Lund (Svezia), la sua vita si orienta ancora di più in questa direzione, organizzando conferenze e dibattiti sulle tematiche ecologiche. Nel 2019 si iscrive al Master di I livello Comparative Law Economics and Finance presso l’International University College di Torino. Negli anni universitari collabora con Limes Club Bologna e scrive articoli per limesonline e Affari Internazionali. Attualmente insegna lettere e collabora con L’Ecopost per aumentare la copertura di stampa sulla crisi ecologica e diffondere buone pratiche per mitigarla.

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