Dakota Access: l’infrastruttura
Lo chiamano DAPL, acronimo di Dakota Access Pipeline. Aldilà del nome musicale e scorrevole però, si tratta di un nuovo smacco autorizzato, firmato e sottoscritto dall’amministrazione Trump nei confronti dell’ambiente. Si tratta di un oleodotto interrato statunitense lungo 1886 km. Il condotto ha origine nel North Dakota occidentale, ove è localizzata la riserva petrolifera denominata Bakken. A partire da questo Stato, la pipeline si snoda sotto i territori del South Dakota, dell’Iowa e dell’Illinois, fino a terminare nei pressi di Patoka. Assieme al suo oleodotto gemello, Energy Transfer Crude Oil Pipeline – il quale nasce a Patoka per concludersi in Texas – forma il celeberrimo sistema Bakken, una delle più discusse infrastrutture energetiche statunitense. Il Bakken è tempio e simulacro di quanto inquinante ed arretrato sia l’approvvigionamento energetico degli States, la prima economia mondiale.
I proprietari di Dakota Access
L’oleodotto è di proprietà dell’azienda Energy Transfer, la quale detiene circa il 36,4% delle quote della MarEn Bakken Company LLC e di altri partner finanziari che sono proprietari di quote più piccole. La MarEn Bakken Company è un’azienda creata per supervisionare il sistema Bakken ed è di proprietà della Enbridge Energy Partners e di MPLX, un’associata di Marathon Petroleum. Marathon è una delle maggiori aziende operanti nel settore della raffinazione petrolifera; nei soli Stati Uniti possiede 16 raffinerie in grado di produrre, giornalmente, oltre 3 milioni di barili di petrolio raffinato. Nella lista Fortune 500 del 2018, quella che classifica le più redditizie aziende mondiali, Marathon era al numero 41. La digressione di questo paragrafo può apparire come stucchevole esercizio finanziario ma è stata riportata per far meglio comprendere, al lettore poco ferrato, quali interessi ruotino attorno a questo progetto.
Il settore petrolifero è una sorta di buco nero, nonostante gli sforzi mirati a convertire l’approvvigionamento energetico mondiale, è ancora uno dei campi più redditizi a livello mondiale. La lobby del petrolio è stata capace. nel corso del ‘900 di allungare i suoi tentacoli ovunque.
Politica ed economia
L’oro nero batte ancora abitualmente cassa a Wall Street e uno squalo come Donald Trump lo sa bene. Stando alla dichiarazione dei redditi del Presidente, egli deteneva, nel maggio 2016, dunque prima di venire eletto, circa 50mila dollari di azioni della Energy Transfer. L’anno precedente aveva dichiarato di detenere una quota azionaria aziendale ancora maggiore (si parla di una cifra tra i 500mila e il milione di dollari). Il Presidente ha dichiarato di aver ceduto le sue quote nel corso dell’estate 2016, notizia riportata anche dal Washington Post. Qualunque sia la situazione del portafoglio azionario di Trump, nulla toglie che la sua trionfale campagna elettorale abbia ricevuto 103mila dollari da Kelcy Warren, il CEO di Energy Transfer Partners.
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Non stupiamoci dei legami tra politici e petrolieri, specialmente negli USA; l’ex governatore del Texas, Rick Perry, è stato membro del board dirigenziale di Energy Transfer fino al 2016. Quell’anno si è dimesso. A seguito della nomina ricevuta da Trump a segretario per l’energia. Dallo scorso anno, non ricopre più tale carica. In un intervento pubblico, il Presidente ha ammesso di appoggiare la realizzazione di DAPL. Secondo una nota del suo staff, la posizione di The Donald “non ha nulla a che fare con gli investimenti personali.”
Le caratteristiche dell’oleodotto
Il diametro della pipeline è di almeno 1,2 metri in ogni suo punto e la capacità è di ben 470mila barili al giorno (circa 75mila m3/d) di petrolio grezzo. La costruzione, partita nel giugno del 2016, si è conclusa ad aprile 2017. Il 14 maggio 2017 il primo barile di petrolio ha percorso il DAPL; il primo giugno seguente, l’oleodotto è diventato commercialmente operativo. Il progetto è costato circa 3,78 miliardi di dollari. Attivisti e politici, non solo statunitensi, hanno evidenziato l’impatto ambientale dell’opera. A seguito di un ricorso, un giudice distrettuale ha stabilito, nel mese di marzo 2020, che il governo non aveva studiato l’impatto ambientale del Dakota Access a sufficienza. In seguito a ciò, lo United States Army Corps of Engineers è stato incaricato di condurre una nuova verifica dell’impatto ambientale. A quasi 3 anni dall’inaugurazione.
Dakota Access e ambiente
Naturalmente, questo articolo non serve solo a constatare l’ovvio. Il centro della questione DAPL non è tanto la collusione tra politica e finanza, non è tanto quello di evidenziare come la lobby petrolifera sia ancora troppo potente da sconfiggere, per quanto entrambi questi due concetti sono molto importanti, all’interno della battaglia ambientale. Il nocciolo della questione, invece, è il fatto che un Paese avanzato come gli USA continuino, imperturbabilmente, ad investire sul fossile.
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La costruzione di un simile serpente di metallo, di un tale mostro ecologico, è stata fortemente avversata, fin dall’inizio della pianificazione. Era il lontano 2014 e il Presidente degli Stati Uniti era ancora Barack Obama; lo stesso che partecipava ai documentari di Leonardo Di Caprio, dicendo che la tutela ambientale doveva essere al centro dell’agenda politica, se ricordate. Obama si è dichiarato contrario alla realizzazione del DAPL e ha preso tempo finché ha potuto; la sua amministrazione però non ha mai fatto nulla di davvero concreto per impedirne la costruzione, accontentandosi di lasciare la palla in mano a chi ne avrebbe preso il posto.
Proteste tribali
Tra i primi ad opporsi alla costruzione vi sono stati i nativi americani della tribù Meskwaki, la cui capotribù, Judith Bender, ha da subito segnalato come il tracciato del Dakota Access corra il rischio di andare a prendere il posto dell’oleodotto Keystone XL, altra pipeline contro la cui realizzazione i nativi si stanno battendo. In merito al Keystone, i nativi sembrano avere il coltello dalla parte del manico, come si suol dire, e la sua effettiva costruzione è in serio dubbio. Le tribù Sioux di Standing Rock e Cheyenne River si sono presto unite alla protesta, poiché il progetto taglia diversi luoghi sacri delle comunità, luoghi che ricadono all’interno di riserve protette e, dunque, dovrebbero essere intoccabili. Dovrebbero, appunto.
Un’annosa questione
L’argomentazione delle tribù è che la realizzazione dell’oleodotto minacci l’acqua, il popolo, la terra e lo stile di vita dei nativi. La verifica ambientale del 2015, prima che la costruzione cominciasse, ha autorizzato il cantiere. Le tribù hanno continuato a protestare per anni, fino a poche settimane fa, quando hanno accolto con gioia il ricorso giudiziario di cui si è scritto. Secondo alcuni ambientalisti e rappresentanti delle tribù, la prima verifica era intrisa di razzismo ambientale a danno delle tribù di nativi. Se così fosse, non sarebbe certo nulla di nuovo per gli Stati Uniti.
D’altra parte, i costruttori, nella fattispecie Energy Transfer per bocca di Kelcy Warren, sostengono di aver avuto poco meno di 400 incontri con oltre 50 tribù di nativi americani prima di iniziare la realizzazione. Secondo Warren, l’oleodotto non passa sotto alcuna proprietà tribale. I 389 incontri tra i costruttori e le tribù sono documentati e, similmente, difficilmente Warren mente, riguardo all’attraversamento di proprietà private. Come ci insegna la storia, però, le tribu dei cosiddetti indiani non basano la loro vita sul possesso e sulla proprietà privata. Per queste persone anche campi, montagne, alberi e fiumi possono essere sacri e nuclei religioso – spirituali della comunità. Ovviamente, nessuno ha la proprietà di questi elementi naturali se non lo Stato.
Praticamente dalla scoperta dell’America in poi, comunità bianche e di nativi americani continuano a scontrarsi sulla questione della proprietà privata. Da quando i colonizzatori europei hanno cominciato a recintare i propri spazi, le tribù si sono trovate praticamente in gabbia sulla loro stessa terra. Pensiamo alla loro situazione come a una perenne privazione di diritti e spazi, come un continuo lockdown. Naturalmente, l’EcoPost si occupa di ambiente e non di cultura angloamericana; in questo preciso contesto, però, le due cose sono legate molto strette.
La minaccia del Dakota Access
Nonostante le tribù native siano state i primi e, probabilmente, principali oppositori del progetto, anche altri americani hanno preso parte alle proteste. Gli Stati interessati dall’oleodotto sono, in gran parte, rurali. Numerosi agricoltori, specialmente quelli che vivono e lavorano in Iowa, si sono detti preoccupati dall’erosione del suolo e la riduzione della fertilità successiva alla realizzazione della pipeline. Il sottosuolo dell’Iowa è piuttosto ricco di risorse idriche, le quali corrono ora il rischio di contaminarsi o venire disperse. A ciò, va aggiunto che vi sono zone, lungo il tragitto del Dakota Access, suscettibili di allagamenti. Qualora si verificasse un simile fenomeno in un punto nel quale, malauguratamente, l’oleodotto avesse una perdita, ci troveremmo di fronte ad un disastro ambientale.
Da parte sua, il costruttore ha garantito che avrebbe riparato qualunque danno causato dagli operai, o dal loro lavoro, alle riserve interrate, facendosi carico dello sradicamento delle erbe infestanti presenti negli Stati, diffusesi inevitabilmente durante le fasi di scavo.
Ambiente e salute
Numerose associazioni impegnate per l’ambiente si sono opposte con forza a questo progetto. Greenpeace e lo Science and Environmental Health Network, insieme a 160 scienziati impegnati in prima linea per la tutela ambientale, hanno firmato, a suo tempo, una petizione contro DAPL, rimasta inascoltata. Attivisti per l’ambiente in ogni angolo del mondo si sono scagliati contro la mancanza di considerazione ambientale dimostrata dai progettisti. Principale timore, come già denunciavano gli agricoltori, è la catastrofica possibilità di una perdita di petrolio nelle acque del fiume Missouri, fonte di acqua potabile per milioni di cittadini. Per quanto remoto possa apparire un tale rischio, teniamo presenti due dati che al lettore italiano saranno probabilmente sconosciuti.
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L’operatore dell’oleodotto, Sunoco Logistics, è sotto indagine per circa 200 perdite verificatesi negli impianti che gestisce. Nessun concorrente ha sprecato così tanto olio grezzo, da impianti onshore, dal 2010 ad oggi. Le stime della Pipeline and Hazardous Materials Safety Administration, l’autorità americana in merito, segnalano che la Sunoco abbia sprecato 3406 barili di petrolio (oltre 540 metri cubi) negli ultimi 10 anni.
Fin da subito, dal 2015, inoltre, gli ambientalisti hanno avviato una class action contro il costruttore, accusandolo di aver condotto una analisi ambientale incompleta. A parer loro, il rigore della prima analisi fu troppo poco, citando come progetti ben meno impattanti di DAPL richiedano analisi più approfondite e durature. Entrando nel merito, senza perderci in tecnicismi poco comprensibili, diciamo soltanto che Dakota Access non presenta alcuno spill response plan per il fiume Missouri e non ha dedicato luoghi vicini per il deposito di attrezzature necessarie alla prima risposta ad una crisi ambientale provocata da danneggiamento dell’oleodotto. In sostanza, non c’è nulla di pronto qualora si dovesse davvero fronteggiare un incidente con sversamento di petrolio nel fiume.
Prospettive future
Per tal motivo, il tribunale ha deciso di far condurre una nuova analisi ambientale. Comunque vada, però, gli ambientalisti hanno già perso. L’oleodotto è attivo e ha creato oltre 50 posti di lavoro, tutti già occupati da personale regolarmente assunto. Qualora la nuova analisi dimostri che il progetto è più pericoloso di quanto originariamente stabilito (com’è molto probabile), difficilmente un Paese come gli USA prenderà provvedimenti contro una infrastruttura la quale, nel solo Iowa, genera un indotto che coinvolge circa 4000 lavoratori e mette in circolo milioni di dollari tra produttore, fornitore e consumatore. In barba ai nativi, agli agricoltori, ai cittadini che dipendono dal Missouri e, in ultima analisi, a tutti noi che ci preoccupiamo della questione ambientale, il Dakota Access è al suo posto. Il lungo serpente metallico, incurante della minaccia che presenta all’ambiente, trasferisce petrolio lungo gli States.
Il Paese delle autostrade leggendarie e della libertà di movimento, concede lo stesso privilegio anche al petrolio. Finché ci sarà questa amministrazione difficilmente le cose cambieranno. In tutta onestà, le probabilità di vedere miglioramenti dal punto di vista ambientale sono molto poche, anche qualora il prossimo Presidente dovesse chiamarsi Joe Biden. L’ex vice di Obama è più noto per le sue gaffe che per la sua politica e le sue posizioni sono conservatrici, non certo progressiste, questo teniamolo bene a mente. Esattamente come nel 2016, la scelta presidenziale a novembre sarà de facto tra un repubblicano radicale ed uno moderato.