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Allarme in America Latina: stop all’export di plastica USA

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Un primato poco invidiabile

Non è una novità per nessuno. Come tutti ben sappiamo, Stati Uniti e Cina guerreggiano a distanza, per così dire, al fine di conquistare la leadership economica mondiale. Il principale settore nel quale le due superpotenze sono avverse è quello economico. Chi riuscirà ad arricchirsi maggiormente sarà infatti anche in grado di attrarre a sé la maggior parte dei Paesi mondiali, tramite accordi commerciali maggiormente vantaggiosi. Come spesso accade, però, ancora una volta è l’ambiente la vittima di questi schemi. Secondo un recente report, riportato sulle pagine del Guardian, gli USA sarebbero recentemente diventati primatisti tra i Paesi produttori del maggiore inquinamento da plastica. La conquista, per così dire, di questa vetta avrebbe dato modo agli States di togliere da quel plateau proprio la bandiera cinese. Precedentemente, infatti, era lo stesso dragone il Paese che produceva il maggior inquinamento da plastica a livello mondiale.

Ciò si deve principalmente all’ultima frontiera tecnologica, alle nuove tecniche che consentono di generare plastica monouso a un costo stracciato. La pandemia in questo non ha certo aiutato: pensiamo soltanto alle mascherine, alle loro confezioni sterili in plastica monouso o a tutte le siringhe contenenti le dosi di vaccino che restano vuote dopo la somministrazione. Per rispondere a una domanda emergenziale, si è accelerata la ricerca per arrivare a una produzione rapida di prodotti plastici. Quello a cui non pensiamo è cosa accada al termine del ciclo vitale di quella plastica. Consideriamo che buona parte di essa termina negli oceani, dove ferisce o uccide fauna e flora marine, danneggia gli ecosistemi e, da ultimo, contamina la catena alimentare per chiunque consumi pesce, esseri umani compresi.

L’avvento della plastica

Dal 1960 in avanti, quando si è cominciata a usare massicciamente la plastica, un materiale per l’epoca rivoluzionario e che sembrava essere una vera e propria manna vista la sua duttilità di utilizzo, il consumo di plastica nel mondo è sempre aumentato. Gli Stati Uniti sono da sempre tra le nazioni più innamorate di questo materiale.

I dati statunitensi sull’utilizzo di questo materiale fanno impallidire. Il Paese produce ogni anno 42 milioni di tonnellate metriche di rifiuti plastici. Per relazionarci meglio al grande numero, pensiamo che è come dire che ogni americano produce, da solo, 130 chili di rifiuti in plastica ogni 12 mesi. Se sommiamo la massa di rifiuti in plastica prodotta da tutti i 27 Paesi membri dell’Unione Europea, nello stesso periodo, non arriviamo a quel totale. Le infrastrutture per il riciclo operative negli USA non riescono a stare al passo e, per tal motivo, un’altissima percentuale di questa plastica non viene riciclata e deve essere smaltita in altro modo.

Secondo alcune stime, ogni anno 8,8 milioni di rifiuti in plastica finiscono negli oceani. È come gettare un camion pieno di scorie plastiche in mare ogni 60 secondi. Di questo passo nel 2030, dunque fra neanche 10 anni, potremmo raggiungere l’incredibile totale di 53 milioni di rifiuti in questo materiale scaricati annualmente in acqua, poiché la produzione si sta moltiplicando. Questa cifra è circa il 50% del peso totale dei pesci che peschiamo ogni anno. Gli USA hanno un ruolo di primo piano in questo, a causa della loro infatuazione per la plastica.

Leggi anche: “Isola di plastica: cos’è? Dov’è? Come si forma?”

La tratta della plastica

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Foto di Darkmoon_Art da Pixabay 

Gli Stati Uniti hanno un problema non da poco: cosa fare con i rifiuti plastici? Pare che la soluzione trovata dagli States sia quella di spedirli in altre regioni del mondo. Secondo un dossier redatto da alcune associazioni ambientaliste in America Latina, Gli USA avrebbero raddoppiato l’esportazione dei rifiuti di plastica verso la regione. I dati si riferiscono ai primi 7 mesi dell’anno 2020 e non ne abbiamo a disposizione di più recenti. Sapendo però quanta plastica giri in America settentrionale, non stupiamoci se la tendenza fosse riconfermata dai dati più recenti.

L’America del sud, geograficamente prossima agli Stati Uniti, vanta un costo del lavoro ben più basso di quello USA. Da quando, nel 2015, la Cina annunciò di non voler più essere la discarica del mondo e serrò i porti alle navi che trasportavano rifiuti, dopo essere stata per decenni la destinazione privilegiata di questi container, gli USA si sono visti costretti a diminuire l’export di immondizia verso Oriente.

Il Messico accetta oltre il 75% dei rifiuti di plastica inviati in America Latina. Tra il gennaio e l’agosto del 2020, il periodo di cui si è occupato il dossier, lo Stato centramericano ha ricevuto oltre 32.650 tonnellate di rifiuti, più di quelli spediti in El Salvador ed Ecuador. Last Beach Cleanup, un gruppo ambientalista con sede in California ha eseguito i calcoli.

Una normativa preistorica

Il diritto internazionale tassa, in maniera pesante, e restringe l’export di rifiuti nocivi e tossici. In realtà però, i controlli effettivi sono abbastanza scarsi nei maggiori porti mondiali. Inoltre la normativa sugli scarti in plastica è cambiata solo nello scorso gennaio 2021. Precedentemente a tale data, infatti, la plastica esportata per il riciclo non sottostava a questa norma. Ciò significa che era davvero semplicissimo etichettare container pieni di rifiuti nel materiali come da riciclare e poi mandarli a riempire discariche nel terzo mondo, in Paesi che non sono in grado neppure di riciclare la propria spazzatura, ma accettano volentieri quella che l’Occidente gli spedisce, dietro pagamento.

Un report firmato GAIA (Global Alliances for Incinerator Alternatives) stima che il settore dei rifiuti in plastica è destinato ad aumentare nel prossimo futuro, in America Latina. Imprese statunitensi e cinesi sarebbero infatti pronte ad aprire poli di riciclo a queste latitudini. Ciò comporterebbe l’effettiva esistenza di centri per riciclare in loco ma anche la loro destinazione estera e non locale. Di fatto, la plastica dell’America del Nord dovrebbe farsi un viaggio lungo mezzo oceano – con tutto il costo connesso in termini di emissioni – per venire riciclata in Cile, Perù o Brasile. Arriveremmo al colonialismo 2.0, quello ambientale.

Plastica, greenwashing e rigurgiti coloniali

“L’esportazione di rifiuti in plastica è, probabilmente, una delle espressioni più nefaste della commercializzazione di beni non comuni. È una occupazione coloniale di territori del Sud del mondo per sfruttamento, per renderli zone sacrificabili. I Caraibi e l’America Latina non sono il cortiletto degli USA, bensì territori sovrani. Domandiamo rispetto per la nostra gente e la nostra natura.”

Ha affermato Fernanda Solìz, direttrice dell’area salute presso l’Università Simon Bolivar in Ecuador, al Guardian.

Nel 2019 la maggior parte delle nazioni del mondo sottoscrisse l’abbandono della creazione di rotte commerciali che spostassero i rifiuti in plastica dal nord economicamente più sviluppato del Pianeta verso il secondo e terzo mondo. Si tratta del cosiddetto emendamento sulla plastica alla convenzione di Basilea. L’accordo impedisce specificamente l’export di rifiuti plastici da entità statunitensi private ad aziende site in Paesi in via di sviluppo, in mancanza di una esplicita autorizzazione dei governi di tali nazioni. Gli States sono uno di quei Paesi che non ha firmato l’accordo e ha continuato, in maniera indisturbata, a spedire i suoi rifiuti in America Latina, Africa e Sud-est asiatico.

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Foto di Maruf Rahman da Pixabay 

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Pesci grossi e pesci piccoli

La posizione di forza della potenza economica USA crea un circuito per il quale, tristemente, ai Paesi in via di sviluppo conviene accettare questi rifiuti. La tratta della plastica, infatti, è un’attività redditizia per entrambe le parti: gli States investono nei Paesi che avvelenano, edificando poli di riciclo che creano lavoro e/o contribuendo in altri progetti di sviluppo economico locali, in cambio del benestare dei governi meno abbienti. Come afferma Camila Aguilera, portavoce di GAIA, però, in questa maniera:

“I governi regionali falliscono in due aspetti: Il primo è quello della dogana. Non sempre, infatti, sappiamo con certezza che cosa sia contenuto nei rifiuti accettati per il riciclo. In secondo luogo, questi esecutivi hanno firmato il trattato di Basilea e così facendo lo tradiscono puntualmente. È importante poi acquistare contezza relativamente al riciclo. Le economie del nord mondiale sono orgogliose di riciclare, tanto da non porsi neppure il problema di sviluppare la propria economia e organizzarsi per compiere il passo successivo, quello che farebbe davvero bene al Pianeta: ridurre la produzione di rifiuti mirando all’impatto zero. Nessun governo tratta la plastica alla stregua di un rifiuto tossico ma, in realtà, le due cose sono davvero molto simili.”

Aguilera si riferisce al fatto che, alla dogana, nessun funzionario si prende la briga – e il rischio sanitario connesso – di verificare che cosa sia davvero contenuto all’interno dei container che trasportano rifiuti in plastica destinati al riciclo. È dunque possibile che le aziende inquinanti del primo mondo approfittino di questa assenza di controlli per spedire rifiuti pericolosi, magari tossici e chissà, forse addirittura radioattivi, in questi Paesi, al fine di lavarsene le mani.

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di Mattia Mezzetti
Gen 18, 2022
Fanese, classe ’91, inquinatore. Dal momento che ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo, non si fa certo problemi ad ammettere che la propria impronta di carbonio sia, come quella della gran parte degli esseri umani su questo pianeta, troppo elevata. Mentre nel suo piccolo cerca di prestare sempre maggior attenzione alla questione delle questioni, quella ambientale, ritiene fondamentale sensibilizzare trattando il più possibile questa tematica.

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