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Luci e ombre sul fondo per l’ambiente di Amazon

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Il modus operandi di Amazon

L’antefatto è il cronico scarso interesse della multinazionale dell’e-commerce, Amazon, verso l’ambiente. L’azienda più grande del mondo, guidata dall’uomo – nettamente – più ricco del mondo, Jeff Bezos, riempie ogni giorno ogni angolo del pianeta con i suoi pacchi che sorridono. La maglietta che non trovavi; la PlayStation per tuo figlio; il set di tazzine che troverei tranquillamente nel negozio sotto casa, ma su Amazon costa meno; il cellulare di ultimissima generazione, perché il mio ha già 6 mesi e va chiaramente cambiato; Amazon consegna tutto a tutti. Un’inchiesta risalente al 2018, firmata da Milena Gabanelli per il Corriere, calcolò che nel corso del 2017 in Italia furono consegnati 150 milioni di pacchi. Cosa comporta questa cifra in termini ambientali?

Le consegne di Amazon sul territorio nazionale avvengono solo ed esclusivamente su gomma. Naturalmente questo non dipende solo dall’azienda, ma anche da una pianificazione infrastrutturale carente che, nel nostro Paese, non ha mai fatto nulla per incrementare altri tipi di trasporto. Torniamo però ad Amazon. I luoghi di partenza di Amazon sparsi lungo il territorio italiano si suddividono in centri di distribuzione e depositi di smistamento. Ad ordine ricevuto e pagamento effettuato, l’azienda mette in moto il pacco, premurandosi di consegnarlo nel più breve tempo possibile. Il tempo è denaro, naturalmente. Per riuscirvi, ogni deposito ha degli stock di merci pronte a partire con brevissimo preavviso.

Il logo di Amazon, con il sorriso inconfondibile che popola i pacchi consegnati giornalmente in giro per il mondo. Foto: Amazon.it

La flotta aziendale

I camion e i furgoncini utilizzati dalla multinazionale non sono certo mezzi che guardano all’ambiente. Secondo un rapporto ISPRA legato all’inchiesta segnalata da cui sto traendo i dati, oltre l’80% dei veicoli commerciali leggeri che transitano giornalmente nelle nostre città appartengono ad una classe inferiore alla Euro 5. Uno studio firmato Bloomberg e McKinsey afferma come i veicoli commerciali, da soli, siano responsabili di oltre il 30% delle emissioni di Co2 e ossido di azoto nella sola città di Londra. A livello europeo incidono per quasi il 50% delle emissioni totali di Nox. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima in circa 3 milioni le morti annuali premature dovute a questo tipo di inquinamento. Dell’incidenza delle morti premature dovute a polveri sottili, anche in Italia, abbiamo parlato a gennaio, come qualcuno ricorderà.

Oltre il 90% dei consumatori si fa recapitare il pacco a casa, oppure in ufficio, nonostante Amazon metta a disposizione dei delivery point in aree e attività commerciali particolarmente frequentati. Le consegne mensili, nel nostro Paese, ammontavano a circa 6 milioni nel 2012, sono poi diventate oltre 15 milioni nel 2017 e sono già aumentate secondo i dati del 2018, secondo un trend che apparirebbe confermato anche per il 2019, seppure i dati non siano stati ancora interamente elaborati. Il traffico su strada e in città di corrieri e fattorini è, dunque, in continuo aumento. Per tal motivo, come diretta conseguenza dell’acquisto online, il numero dei veicoli commerciali impiegati nel mondo è già cresciuto di oltre il 30% negli ultimi 15 anni, ci dicono Bloomberg e McKinsey. Gli stessi ricercatori stimano che tra oggi e il 2050 questo tipo di traffico veicolare aumenterà di oltre il 40%, nelle grandi città.

Il costo del packaging

Mentre nei negozi tradizionali, solitamente, il fornitore consegna uno stock di prodotti, l’imballaggio dell’acquisto online è sempre unitario. Se acquisto un bel maglione in un negozio di abbigliamento, la commessa lo piegherà e me lo infilerà in una busta, di plastica o carta, tramite la quale me lo porterò a casa. Se faccio lo stesso acquisto su Amazon, tutto cambia. Innanzitutto si riempirà la busta di plastica, poi questa finirà dentro un imballaggio di cartone. Per sigillare il tutto, magari, saranno usate fascette di plastica. Corepla, il consorzio per il riciclo di imballaggi in plastica, stima che dal 2016 l’e-commerce ha rappresentato il 15% del totale della plastica immessa al consumo. Parliamo di circa 300mila tonnellate. Il volume di questo rifiuto è aumentato del 200% in dieci anni.

La domanda di cartone aumenta costantemente e, se è vero che tale elemento è fortemente riciclabile ( l’88% di esso viene riutilizzato), l’aumento della richiesta resta comunque costante e sensibile. Tutti i dati utilizzati sono verificabili sulla citata inchiesta di Gabanelli per il Corriere.

Dipendenti contro

L’ondata di sensibilità e attenzione al tema ambientale, che attualmente si sta, finalmente, respirando un pò ovunque, ha investito anche i compound di Amazon. Una ventina di giorni fa, al termine di gennaio, 300 dipendenti del gigante del commercio hanno apertamente criticato la politica aziendale sull’ambiente. Gli aderenti all’AECJ (Amazon Employees for Climate Justice) hanno richiesta maggiori sforzi al colosso dello shopping in rete. Le critiche si rivolgono al piano ambientale presentato il 19 settembre dallo stesso Bezos. Il mogul si è impegnato a raggiungere le emissioni zero nel 2040. L’AECJ chiede che lo stesso risultato di neutralità carbonica sia raggiunto ben 10 anni prima, non più tardi del 2030.

L’azienda è ben consapevole di come il suo successo si debba principalmente all’enorme rete logistica di trasporti stradali costruita per garantire consegne sempre più veloci. Per mettere in piedi una simile piramide funzionale, Amazon si è resa attore principale nella produzione di gas serra. Tali gas rappresentano i principali responsabili dell’emissione in atmosfera di anidride carbonica. Secondo Climate Watch la C02 prodotta annualmente da Amazon (44,4 milioni di tonnellate) equivale al 10% delle emissioni annuali totali della Francia.

Amazon e il fondo per la Terra

Pungolato dai suoi dipendenti e continuamente attaccato dagli attivisti per il clima, Jeff Bezos ha dichiarato che scenderà in prima linea nella lotta al cambiamento climatico. Il CEO dei CEO ha postato, sul proprio account di Instagram, l’intenzione di lanciare il Bezos Earth Fund. Obiettivo del fondo è il contrasto attivo ai disastrosi effetti del surriscaldamento globale. Bezos doterà personalmente il fondo di 10 miliardi di dollari, somma stanziata per iniziare, ha tenuto a specificare il miliardario, la quale sarà sovvenzionata a ricercatori, attivisti e ong in estate.

Il post su Instagram mostra una foto del nostro Pianeta visto dallo spazio, e in esso Bezos ha usato parole incoraggianti e ricche di speranza. “Possiamo salvare la Terra” ha esordito, “ciò richiede un’azione collettiva. Di grandi e piccole aziende, Stati, organizzazioni globali ed individui.” Ha poi concluso scrivendo “La Terra è la cosa che tutti noi abbiamo in comune. Proteggiamola insieme.”

Jeff Bezos, Foto: Repubblica

L’impegno di Amazon: sensibilità o ipocrisia?

Non possiamo che condividere le parole di Bezos; l’intento di una simile azienda ad impegnarsi in prima linea per l’ambiente è encomiabile. In questi giorni abbiamo segnalato l’impegno di BlackRock, altra azienda gigantesca, sul fronte ambientale, e riportare che non sia la sola in questa battaglia è rincuorante, quantomeno. Secondo la nota rivista di scienza e tecnologia, The Verge, l’iniziativa di Bezos non finanzierà progetti privati ma soltanto donazioni benefiche, lo farà prevalentemente sotto forma di borse studio. Questa è una buona notizia, in quanto è atto dovuto premiare e sostenere il merito di studiosi e scienziati da tempo in prima linea in questa lotta, per consentir loro di continuare il prezioso lavoro che portano avanti. L’esternazione di Jeff Bezos, però, si è portata dietro anche un buon treno di critiche e polemiche.

Non tutti i dipendenti di Amazon vedono di buon occhio il Bezos Earth Fund

Pericolo greenwashing

Molte voci hanno affermato che il post del CEO di Amazon non sia che una strategia di comunicazione bagnata di falsa ecologia, greenwashing e poco altro. I primi a fidarsi poco sono proprio i membri della AECJ, i quali hanno scritto in una nota: “Apprezziamo la filantropia di Jeff Bezos ma una mano non può dare quel che l’altra porta via.” Il riferimento velato è ai – redditizi – accordi siglati negli ultimi mesi dello scorso anno da Amazon con alcune società che sfruttano combustili fossili. Tra esse ricordiamo la celeberrima British Petroleum, tristemente nota per il disastro ambientale causato dalla sua piattaforma Deepwater, Shell e Haliburton. Amazon fornirà loro la tecnologia per una migliore automazione ed esportazione dei giacimenti petroliferi.

Il petrolio disperso nel Golfo del Messico dalla piattaforma Deepwater. Foto: The Economist

In aggiunta a ciò, Bezos ha fornito solo dei dettagli rudimentali su quel che farà il suo fondo. Non ha neppure lontanamente indicato o segnalato quali siano le priorità del suo piano o come intenda affrontarle. Annunciare di portare avanti “qualsiasi sforzo che offra una reale possibilità di preservare e proteggere il mondo naturale” significa ben poco. Sono parole che possono suonare vaghe quando provengono dal titolare di un’azienda che ricava miliardi consegnando prodotti imballati in carta e plastica e consegnati sfruttando combustibili fossili.

Cosa aspettarsi da Amazon?

Le controversie aziendali di Amazon sono ben note. La consegna in un giorno garantita a chi utilizza il servizio a pagamento Prime significa furgoncini, spesso semivuoti, che partono immediatamente dopo la conferma d’ordine per evitare disservizi. Per ridurre i costi e soddisfare le esigenze di una vendita al dettaglio così minuziosa i lavoratori sopportano spesso condizioni lavorative degradanti, pressoché disumane. Ci piacerebbe che Bezos contribuisse in maniera seria e decisa alla lotta al cambiamento climatico, dati i suoi mezzi economici. L’esperienza ci insegna però che, troppo spesso, i mogul del capitalismo come lui chiudono un occhio, quando non entrambi, di fronte alla questione. Tristemente, e lo sappiamo, per loro è più importante il guadagno del bene comune.

Il costo ambientale di Amazon Prime
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di Mattia Mezzetti
Feb 24, 2020
Fanese, classe ’91, inquinatore. Dal momento che ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo, non si fa certo problemi ad ammettere che la propria impronta di carbonio sia, come quella della gran parte degli esseri umani su questo pianeta, troppo elevata. Mentre nel suo piccolo cerca di prestare sempre maggior attenzione alla questione delle questioni, quella ambientale, ritiene fondamentale sensibilizzare trattando il più possibile questa tematica.

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