Sabato scorso si è conclusa la Conferenza delle parti di Glasgow (Cop26), la ventiseiesima negoziazione internazionale sul clima, che ha riunito quasi duecento paesi al mondo. La più partecipata di sempre, con quasi 40 mila registrati tra negoziatori, osservatori della società civile e stampa.
Le aspettative erano alte. Sia perché la presidenza britannica aveva annunciato di voler dare un colpo finale alla dipendenza mondiale dal carbone, il peggiore tra i combustibili fossili; sia perché sono passati sei anni dall’accordo di Parigi e le parti erano tenute ad aggiornarsi sullo stato dell’arte; sia per rendere finalmente operativo il fondo sociale di 100 miliardi di dollari l’anno che i paesi ricchi, i maggiori responsabili del riscaldamento globale, avevano promesso nel 2009 ai paesi più poveri per finanziare la loro transizione ecologica.
Purtroppo però, senza girarci troppo intorno, si può affermare senza paura di essere smentiti che la COP 26 è andata male. C’è però ancora un barlume di speranza. Scopriamo perché.
L’accordo di Glasgow
Il documento finale redatto e approvato da tutti i delegati presenti prenderà il nome di “Glasgow Climate Pact”.
I termini più utilizzati nei vari commenti usciti su siti web e canali social di testate, ong e attivisti sono stati “un accordo annacquato”, “fallimento” e “delusione”.
Ed è vero, ci sono brecce da tutte le parti. In effetti, nonostante le parole soddisfatte di molti portavoce, non si tratta in alcun modo di un accordo che cambierà le cose. Molti dei personaggi giunti più motivati alla Conferenza hanno sottolineato come occorrerà alzare ulteriormente l’asticella nei prossimi anni.
Con le basi del documento attuale, limitare l’aumento della temperatura media globale a +1,5°C è di fatto impossibile. Proviamo ad analizzare i contenuti del testo approvato e firmato da tutti i paesi partecipanti con anche le reazioni di alcuni dei protagonisti.
Le fonti fossili
Partiamo dal finale, cioè dal discorso conclusivo del presidente della Conferenza. Che nel tono e nelle parole ricorda molto quello della ministra cilena che ha chiuso la Cop25 di Madrid. Al termine delle negoziazioni, il parlamentare inglese Alok Sharma, visibilmente commosso, ha detto di essere «profondamente frustrato per il modo in cui le negoziazioni si sono svolte», e che la Cina e l’India dovranno «spiegare ai paesi sottoposti al cambiamento climatico perché hanno fatto quello che hanno fatto». Sharma si riferisce al colpo di coda di questi due paesi per cui dalla terza bozza dell’accordo, la quale prevedeva “l’eliminazione” del carbone (eccetto per le centrali con sistemi di riduzione delle emissioni), si è passato ad una più morbida “riduzione”. Sul tema, quindi, le negoziazioni sono concluse con un accordo al ribasso.
Anche il riferimento all’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili ne esce ammorbidito, con l’inserimento della dicitura “eliminazione dei sussidi inefficienti”. Formula alquanto controversa e suscettibile di multiple interpretazioni. Considerando l’astuzia politica e comunicativa di chi da decenni genera profitti distruggendo il pianeta, non ci vorrà molto tempo prima che venga individuato un modo per aggirare questa restrizione.
Per quanto riguarda questo punto vale la pena sottolineare come la delegazione numericamente più nutrita fosse proprio quella della lobby del fossile con oltre 500 rappresentanti. Più di qualsiasi altro paese rappresentato. Per capire l’importanza di questa tematica vale la pena ricordate qualche dato.
Nel 2020 il 6,8% del PIL mondiale è stato destinato ai sussidi alle fonti fossili. Stiamo parlando di 5.900 miliardi di dollari, ogni anno. Solamente in Italia questa somma, per il 2020, ha raggiunto i 41 miliardi.
Sul fronte fossili, però, ci sono anche notizie positive. Potrebbe sembrare scontato, ma per la prima volta in un accordo climatico sono stati menzionati i combustibili fossili (carbone, gas naturale e petrolio), cioè i maggiori responsabili del riscaldamento globale. Inoltre, è stato finalmente approvato il mercato del carbonio, un complesso sistema per commercializzare e calmierare le emissioni di CO2, previsto dall’accordo di Parigi e mai finora reso esecutivo per davvero.
Altro passo avanti è quello sull’impegno intermedio rispetto a fine secolo (anche questo è un unicum). Le parti si sono infatti impegnate a tagliare del 45% le proprie emissioni di CO2 entro il 2030. Per farlo, dovranno sottoporre i propri target climatici già nel 2022. Per la prima volta, inoltre, gli stati vengono invitati a ridurre le emissioni di metano entro il 2030, altro gas climalterante insieme alla CO2.
Insomma, nessun risultato concreto, ma piccoli progressi incrementali.
Giustizia climatica e “Loss and Damage”
Probabilmente, la Cop che si è appena conclusa è stata quella più politica, nel senso stretto del termine. Temi come la giustizia climatica e la “giusta transizione” sono entrati seriamente a far parte dei negoziati. A Glasgow, il tema della finanza climatica è stato uno de più spinosi.
Hanno fatto il giro del mondo le immagini del ministro di Tuvalu, un atollo del Pacifico, che invia un messaggio agli altri delegati riprendendosi con le gambe immerse nell’acqua fino al ginocchio. Lo stato insulare di Tuvalu è tra quelli che rischia maggiormente per l’aumento della temperatura globale. A causa dell’innalzamento del livello degli oceani le sue isole sono seriamente minacciate di essere sommerse da qui a qualche decennio.
D’altra parte, Tuvalu è anche tra i paesi meno responsabili dell’emissione di gas climalteranti nell’atmosfera. Come a dire che rischia di scomparire, ma per responsabilità esclusivamente altrui.
Che le conseguenze del riscaldamento globale sono disuguali lo si sapeva da tempo. Alcuni paesi sono esposti a conseguenze maggiori, sia per ragioni geografiche (come il caso di Tuvalu), che socio-economiche o politico-istituzionali. Certo, la tutela del clima è un obiettivo comune, ma vi è una diversità in quanto ai diversi contributi storici al suo deterioramento. E quindi anche ai diversi oneri. Il paradosso è che gli individui (o gli stati) che hanno causato il riscaldamento globale non coincidono con quelli che ne soffrono maggiormente le conseguenze.
Per questa ragione, nella Cop di Copenaghen del 2009 si decise di istituire un fondo sociale di 100 miliardi di dollari annuali, il c.d. Green Climate Fund, con cui i paesi ricchi avrebbero dovuto finanziare la transizione dei paesi più poveri.
Nella Cop di Glasgow, oltre a questo fondo, un gruppo di 77 paesi (insieme alla Cina), quelli che subiscono una crisi che non hanno causato, hanno chiesto ai paesi ricchi di finanziare un ulteriore fondo (c.d. Loss and Damage), quantificandolo tra i 290 e i 580 miliardi di dollari l’anno, con cui pagare i disastri naturali già prodotti dal riscaldamento globale.
Le negoziazioni sono state difficili e, a differenza del carbone, in nessuna bozza sono state strappate diciture concrete. Risultato finale dell’accordo: su entrambe le questioni, gli Stati Uniti e l’Unione europea si sono fortemente opposte, facendo così naufragare le proposte. Quindi tutto rinviato alle prossime negoziazioni.
Su questo tema la nota più positiva riguarda l’inserimento nel testo finale della frase “recognizing the need for support towards a just transition”, ovvero “riconoscendo la necessità di supportare il percorso verso una transizione equa”. Tuttavia, di fatto, di fronte a quella che era a tutti gli effetti una richiesta d’aiuto quasi disperata, i paesi economicamente più sviluppati si sono girati dall’altra parte.
Stop alla deforestazione. Sì, ma dal 2030
Sbandierata ai quattro venti come un risultato storico, anche la sezione dedicata alla deforestazione lascia qualche dubbio.
Da un lato c’è soddisfazione per la sottoscrizione di un accordo che inizialmente vincolava un centinaio di paesi, ospitanti circa l’85% della superficie forestale mondiale tra cui anche Brasile, Canada e Congo, a porre fine ai processi di deforestazione entro il 2030.
E a prima vista si tratta di una buona notizia. Ma resta tutto da vedere. Anche perché il documento firmato non è in alcun modo vincolante. Inoltre, a pochi giorni dalla ratifica, l’Indonesia, paese che ospita la terza foresta pluviale più estesa al mondo, si è già tirata fuori.
La storia recente ci dice inoltre che rispettare questi accordi non è l’attività preferita dei governi, specialmente quando questi vanno ad intaccare i profitti di multinazionali e lobby dei più vari settori.
Inoltre è probabile che di fronte ad un accordo di questo tipo il fenomeno della deforestazione da qui al 2030 sarà accelerato, come intuibile dalla vicina ratifica dell’accordo Mercosur che sancirà di fatto una partnership economica tra Unione Europea e Brasile nello sfruttamento della Foresta Amazzonica, foraggiandone di fatto la distruzione.
Sul tema dell’Amazzonia vale la pena sottolineare come le richieste dei vari enti rappresentanti gli interessi delle popolazioni indigene che la abitano, siano state ignorate.
Il BOGA – Beyond Oil and Gas Alliance
Una delle note più positive della COP è stata la ratifica del BOGA – Beyond Oil and Gas Alliance, un’alleanza per l’uscita dagli idrocarburi. Un documento proposto da Danimarca e Costa Rica che impegna i paesi firmatari come “Core Members”, membri principali, a non concedere più licenze, concessioni o leasing per la produzione ed esplorazione di petrolio e gas. Anche in questo caso però, purtroppo, l’accordo non è vincolante e non sono previste sanzioni per i paesi che non rispetteranno i termini. Si tratta per lo più di dichiarazioni politiche.
Inoltre i paesi firmatari sono stati solo 11 e alcuni di questi abbiano scelto due dei tre livelli di adesione che comportano un impegno minore. Tra questi c’è anche l’Italia che, senza tanti giri di parole, non ha fatto proprio bella figura durante questa Conferenza.
Il (non) ruolo dell’Italia
Dopo aver ospitato il G20 che ha preceduto la COP26, i più ottimisti si aspettavano delle prese di posizione decise da parte dell’Italia che, come sappiamo, è uno dei Paesi del mondo sviluppato che subirà maggiormente le conseguenze della crisi climatica. Anzi, le sta già subendo a tutti gli effetti.
Bene, chiunque nutrisse speranze in questo senso, noi compresi, rimane con un pugno di mosche in mano. Riprendendo brevemente il discorso sul BOGA, l’Italia ha scelto il ruolo di “Friend”, ovvero quello di “chi si impegna a sostenere una transizione globale socialmente giusta ed equa per allineare la produzione di petrolio e gas con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi”.
Insomma, una bella pacca sulla spalla.
Tra gli altri elementi da sottolineare sulla partecipazione dell’Italia alla COP, con il Ministro della Transizione Ecologica Cingolani a fare da alfiere, c’è la mancata sottoscrizione del documento interno all’Unione Europea per lasciare il nucleare al di fuori della tassonomia di “Energia Verde” utile alla transizione.
C’è poi un ultimo documento che l’Italia ha deciso di non sottoscrivere: quello per lo stop all’immatricolazione di automobili a motore termico entro il 2035. L’ennesima occasione persa per mostrare un minimo di buone intenzioni.
Processi lenti, e pochi risultati
“Questa non è una corsa, ma una maratona” ha detto Barack Obama davanti alla sala plenaria di Glasgow stracolma di gente. Il punto per dare un giudizio lucido su cosa è successo a Glasgow sta forse tutto qui. Volendo tirare le somme, come ha scritto Ferdinando Cotugno, questi negoziati portano con sé più progressi che risultati veri e propri. E, retrospettivamente, progressi nel corso degli ultimi ventisei anni di conferenze ce ne sono stati, eccome.
Ad oggi, però, di problemi ce ne sono due. Da un lato, questa lentezza non fa che alimentare la sfiducia di attivisti e società civile riguardo alla buona riuscita di queste conferenze; tutto ciò, in una congiuntura dove la fiducia nei confronti di politici, e istituzioni in generale, è ai minimi storici, non fa che alimentare rabbia e frustrazione. Dall’altro lato, anno dopo anno si allarga la crepa che si è formata tra l’urgenza, con cui il mondo scientifico esorta ad agire, e la tempestività con cui la politica adotta decisioni.
Probabilmente il risultato più significativo di Glasgow è che, da queste conferenze, più di questo non possiamo aspettarci. Nel frattempo i combustibili fossili continuano a essere bruciati, la temperatura media del pianeta continua ad aumentare, e paesi come lo stato insulare di Tuvalu rischiano seriamente di scomparire.
Le (poche) note positive
A mantenere viva la speranza c’è per fortuna la società civile, che ha partecipato in massa a manifestazioni e proteste per chiedere un’azione più decisa, che vada nella direzione di un sistema economico più giusto ed inclusivo e, naturalemte, a zero emissioni.
Un vero e proprio fiume di persone unite per una causa indiscutibilmente giusta e su cui occorre intervenire in modo massiccio quanto prima.
Dietro allo scontento per i risultati della COP c’è infatti anche un’importante movimentazione popolare che continuerà a crescere. Molto esplicativo in questo senso l’ultimo Tweet di Greta Thunberg:
Una delle frasi più ripetute da rappresentanti politici e istituzionali è stata la seguente: “La speranza di rispettare il limite di +1,5°C è ancora viva”.
Una magra, magrissima consolazione, che si fonda su un ottimismo al momento ingiustificato. La possibilità di riuscirci, con questo accordo, effettivamente ancora c’è, ma definirla “viva” è esagerato. Di questo passo infatti, la speranza di non superare quella soglia è più che altro un malato terminale.
In ultimo, per la serie “chi si accontenta gode”, vale la pena sottolineare l’imposizione “di organizzare un meeting ministeriale annuale di alto livello sulle azioni da intraprendere prima del 2030”. Questa iniziativa, lascia la porta aperta ad una svolta che avrebbe dovuto sicuramente arrivare durante questi negoziati, ma che comunque potrebbe arrivare in futuro. Difficile che accada, viste le premesse, ma la possibilità esiste.
In questo senso è stata anche uniformata la “griglia” del documento da presentare ogni anno a questi incontri, che dovrà esporre i dati relativi all’abbattimento delle emissioni di anno in anno. Ma anche su questo è stata data la possibilità di “non riempire alcune caselle”, dando il via libera a chi vorrà nascondere le proprie mancanze.
Una delle notizie migliori riguarda poi l’istituzione di un’enorme area marina protetta, denominata “Eastern Tropical Pacific Marine Corridor” che si estenderà su una superficie di oltre 500.000 chilometri quadrati, dalla Costa Rica alla Colombia. Al suo interno sarà infatti vietata la pesca, favorendo le rotte migratorie di tantissime specie. Visto il ruolo centrale del benessere dell’ecosistema marino e oceanico nell’assorbire le emissioni, questo provvedimento potrebbe fungere da apripista nella difesa dei mari e degli oceani.
Quindi, com’è andata la COP26?
Inutile girarci intorno. Le poche persone che si sono dichiarate “contente” degli esiti della COP sono i rappresentati di qualche stato che è riuscito a difendere i propri interessi. Per il resto, di soddisfazione in giro ce n’è poca. A partire dallo stesso Alok Sharma, presidente della Conferenza, che, come visto sopra, si è limitato a commentare l’accordo “come il migliore possibile”, senza nascondere la propria delusione.
Il panorama ambientalista internazionale è uscito indignato dalla Conferenza, definendola “un’illusione costruita per salvare il capitalismo”, “un festival del Greenwashing” e commentando l’accordo come un documento “timido e debole”.
Un ultimo commento che vogliamo riportare è quello di Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, in quanto a dir poco esplicativo dell’esito delle trattative: “Rimaniamo sempre sull’orlo di una catastrofe climatica. La conferenza ha portato dei passi in avanti, ma che ancora non bastano”.