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Smettiamola di incolpare Cina e India per le (nostre) emissioni

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Sempre più spesso sentiamo risuonare la frase “tutta colpa di Cina e India” quando si parla di emissioni e cambiamento climatico. Sebbene ci sia un sostanziale fondo di verità in questa accusa, sentiamo il dovere di spiegare con dati alla mano che il problema è tanto cinese quanto italiano, inglese e soprattutto americano. Infatti, analizzando il quadro storico, le responsabilità pro-capite e le cause di emissione, ricaviamo un quadro che tutto ci permette tranne che continuare ad avere il nostro solito stile di vita ed accusare Cina e India dal nostro smartphone. Smartphone che con ogni probabilità è stato prodotto proprio in quei paesi, ordinato su Amazon, e che ha quindi richiesto una quantità enorme di anidride carbonica per arrivare fino alle nostre mani.

Cina e India al primo e terzo posto

È vero, Cina e India sono fra i grandi inquinatori del mondo. Risultano rispettivamente primo e terzo nella classifica mondiale, intervallati dagli Stati Uniti. Nel 2017 la Cina ha emesso circa 10 miliardi di tonnellate di CO2, ricoprendo quindi il 27,2% delle emissioni globali, mentre l’India è stata responsabile del 6.8% con un’emissione pari a 2,4 miliardi di tonnellate. È innegabile quindi attribuire ai due colossi asiatici una responsabilità enorme nel quadro del cambiamento climatico. Ed è altrettanto vero che questa tendenza va assolutamente fermata, se si vuole evitare il collasso ecologico di cui tanto sentiamo parlare.

Leggi il nostro articolo: Scienziati: “Emergenza clima, ci aspettano sofferenze indicibili”

D’altra parte però, bisogna rintracciare le coordinate storiche, i motivi politici e le ragioni economiche che stanno dietro a questi numeri. In primo luogo, se si analizza l’arco di tempo che parte dalla rivoluzione industriale, ovvero da quando le emissioni hanno iniziato a crescere su larga scala, i dati soprariportati vengono fortemente ridimensionati. Infatti, come riporta Chivers nel libro The No-nonsense Guide to Climate Change, la Cina scende al terzo posto per responsabilità storiche, preceduta da Stati Uniti e Russia. L’India è invece settima, attestandosi dopo Germania, Gran Bretagna, Giappone e Francia. Cosa ha causato allora il forte aumento degli ultimi anni? L’inizio delle emissioni sregolate da parte di Cina e India va attribuito in parte alle regole stabilite dal Protocollo di Kyoto, il primo storico accordo in materia di riscaldamento globale.

Cina e India “in via di sviluppo”. La crescita che ferisce la Terra

L’accordo aveva infatti diviso i vari paesi del mondo in tre categorie: paesi sviluppati, paesi sviluppati con “economie in transizione” e paesi in via di sviluppo. Cina e India furono inserite nell’ultimo gruppo come paesi in via di sviluppo. L’accordo non impose loro nessun vincolo di emissioni per permettere di perseguire il “progresso” già ottenuto dai paesi cosiddetti industrializzati, in gran parte situati in Occidente. Questo perchè negli ultimi quarant’anni ha predominato un’idea di sviluppo misurato in termini puramente economici, senza tener conto delle conseguenze devastanti che una crescita annua di PIL fra i 6 e i 10 punti percentuali possa creare sull’ecosistema.

Quante terre servono a un cittadino occidentale?

Un altro fattore interessante da indagare è l’emissione pro-capite: infatti, Cina e India risultano fra i principali paesi nelle classifiche su base nazionale; un indicatore più veritiero riguarda invece le emissioni prodotte da ogni individuo nei singoli paesi. Come riporta Il Fatto Quotidiano, “nel 2017 un cinese emetteva circa un terzo della CO2 emessa da uno statunitense, e un indiano meno di un terzo di un cittadino italiano”. Avete presente l’Overshoot Day, il giorno in cui l’umanità finisce le risorse naturali previste per quell’anno?

Quando andiamo a calcolare l’impronta ecologica delle singole nazioni, notiamo che paesi come gli Stati Uniti già negli anni Sessanta utilizzavano una quantità di risorse naturali pari a cinque volte le disponibilità del pianeta. La Cina invece, ha iniziato il suo “deficit” nei confronti della terra solo nel 1999 (al momento ha un’impronta ecologica di 2.2 pianeti per sostenere lo stile di vita dei suoi abitanti). I dati disponibili sul sito Global Footprint Network ci mostrano che l’India è addirittura dentro la biocapacità della Terra. Gli italiani ultimamente chiamano spesso in causa cinesi e indiani, ma l‘impronta ecologica del nostro paese si attesta attorno a 2.72 pianeti; nel complesso, l’Italia ha superato i limiti di biocapacità già nel 1965.

Le emissioni per necessità e le emissioni di lusso

Inoltre, dobbiamo considerare la concentrazione della ricchezza. I dati Oxfam ci ricordano che il 10% più ricco della popolazione produce da solo il 50% delle emissioni globali. La metà più povera della popolazione situata nel mondo, pari a 3.5 miliardi, è responsabile di un misero 10% delle emissioni totali di Co2. Questi dati generali non considerano neanche il tipo di fonte delle emissioni. In India, ad esempio, il riscaldamento e la cottura del cibo vengono ancora in gran parte generati da metodi altamente inquinanti, come le biomasse. Riscaldamento e cottura del cibo devono essere considerati bisogni primari e non possono valere quanto le infinite emissioni date da attività di svago o lusso dei paesi sviluppati.

Per fare un esempio su tutti, a Dubai esiste una pista da sci artificiale all’interno di un centro commerciale, con una temperatura esterna media fra i 25 e i 40 gradi. Immaginiamo l’immensa quantità di energia per creare una temperatura ideale per sciare all’interno. Nella stessa città, i clienti che fanno shopping a volte lasciano la macchina con aria condizionata accesa fuori dai negozi; così che, al loro ritorno nel veicolo, non soffrono troppo per lo sbalzo di temperatura interno-esterno. Quanto è giusto comparare le emissioni indiane per riscaldare la cena con l’assurdo sfizio occidentale di divertirsi e sentirsi freschi?

Leggi il nostro articolo: “Sciare a Dubai: il pericoloso nonsenso della neve artificiale”

Cina e India: i nostri ordini su Amazon

Infine, bisogna considerare che il continente asiatico inquina anche per soddisfare le richieste dei consumatori occidentali. Ovvero tutti noi, cittadini italiani, americani, francesi, che dal nostro divano ordiniamo prodotti su Amazon o altre piattaforme con un semplice click dello smartphone. La Cina da sola, rappresenta il 54% del mercato globale e-commerce. Per contro, uno studio americano ha calcolato che circa il 15% dei cittadini di New York riceve come minimo un pacchetto al giorno. Jose Holguin-Veras, Professore all’Università di Rensselaer ha commentato così questo fenomeno: “Quante di queste consegne sono veramente urgenti? Forse il 2% o il 5%?”. Anche lui, ci ricorda che il nostro ruolo di consumatori ha un grosso peso nella crisi climatica: “Noi, come clienti, stiamo guidando il processo. In un certo senso, siamo noi ad avere creato tutto ciò”.

Responsabilità globale, in nome della giustizia climatica

Al netto di tutte queste considerazioni, vogliamo sottolineare che nessuno può esonerare Cina, India e gli altri paesi emergenti dalle emissioni prodotte nei propri paesi. Nessuno stato può ormai esimersi dalla responsabilità storica e intergenerazionale di adeguare i propri concetti di sviluppo, modernità e crescita ai confini planetari del pianeta. Tuttavia, è bene tenere a mente gli argomenti sopraelencati prima di puntare il dito e compiere l’ennesimo tentativo di greenwashing delle nostre coscienze. Sarebbe certo più comodo lasciare che siano gli altri ad agire. Potremmo continuare imperterriti con i nostri stili di vita pieni di sfizi ad alto contenuto di emissioni. Sarebbe più comodo, ma la crisi climatica richiede che tutti facciano la propria parte. Ogni stato e ogni cittadino deve fare qualcosa, tenendo conto delle proprie responsabilità passate, delle possibilità presenti e dei benefici futuri.

Leggi il nostro articolo: “La fast fashion è il patibolo del pianeta”

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di Federica Bilancioni
Nov 11, 2019
Nata nel 1994 a Fano, si laurea in Storia all’Università di Bologna. Decide poi di iscriversi alla magistrale Global Cultures ed è grazie ad una materia specifica di questa magistrale che si appassiona alla tematica ambientale. Dal 2017 infatti, Federica fa ricerca sul cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. Dopo l’Erasmus a Lund (Svezia), la sua vita si orienta ancora di più in questa direzione, organizzando conferenze e dibattiti sulle tematiche ecologiche. Nel 2019 si iscrive al Master di I livello Comparative Law Economics and Finance presso l’International University College di Torino. Negli anni universitari collabora con Limes Club Bologna e scrive articoli per limesonline e Affari Internazionali. Attualmente insegna lettere e collabora con L’Ecopost per aumentare la copertura di stampa sulla crisi ecologica e diffondere buone pratiche per mitigarla.

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